Nella vita arrivano quei momenti in cui ci si rende conto di vivere nel passato, in cui i ricordi e la nostalgia devono essere messi da parte in nome di un presente che può far paura, ma che va scandagliato e analizzato con la mente libera e il cuore aperto (o quasi).
Quel momento per me è arrivato pochi giorni fa, quando dopo aver sentito nuovamente quel nome in radio e aver cambiato come sempre stazione prima che la canzone iniziasse, mi sono resa conto che non potevo più rimandare l’inevitabile. Dovevo sforzarmi di fare la cosa giusta, spogliarmi dei pregiudizi che mi attanagliano sin dall’adolescenza e affrontare la realtà. Ebbene sì, è giunta l’ora di fare quello che non avrei mai pensato di fare: ascoltare una canzone degli “One Direction”.
Perché per una trentenne cresciuta a pane e Pink Floyd accettare l’idea che oggi a dettare legge all’interno del panorama musicale siano i ciuffi piastrati e fluenti di una boy band e non le chiome crespe e appiccicaticce dei vari Eddie Vedder e Jimi Page può essere un trauma difficile da superare. Ma ho scelto di farmi forza e aprirmi a un nuovo mondo, quello dei giovani. Sono adulta, sono laureata, ho affrontato altre difficoltà nella vita: posso farcela! Dopotutto è intellettualmente corretto conoscere le ultime tendenze, dopotutto Nick Mason ha detto che non sono male. Magari scopro pure che esistono i nuovi “The Doors”.
E così con la smorfia tipica di una radical chic convinta che possedere l’onniscienza musicale sia l’unica via per la salvezza, decido di adottare il classico metodo scientifico. Il che significa aprire Google, digitare all’interno della barra “le migliori canzoni degli One Direction” e attendere la tipica risposta galileiana di “Yahoo Answer”.
A venirmi in soccorso è una biondina che dalla foto sembra avere la metà dei miei anni. Definisce se stessa una “Vera Directioner” (perchè non mi sono mai fatta chiamare “Vera Pinkinfloyder” o “Vera Morriser”?, è geniale) e mi dà una classifica di canzoni degna dei più celebri programmi di MTV. Prendo i primi tre titoli (“What makes you beautiful”, “Gotta be you” e “One thing”) e vado avanti.
Il secondo step è ancora più difficile. Apro ” You Tube” con lo stesso senso di colpa con cui Giulietta tradirebbe Romeo con Mercutio e, seguendo le precedenti indicazioni, premo “play”. Sin dall’inizio ho la sensazione di vendere la mia anima al diavolo, ma continuo con la mia missione. Il presente è il mio unico credo. Mentre il brano va avanti chiedo scusa a tutti: a George Harrison, a David Gilmour, a Jim Morrison, a Robert Plant, a Chris Cornell e via dicendo. Io non volevo farlo, è colpa del progresso.
Passano i minuti e accade ciò che non avrei mai creduto succedesse: il mio piedino comincia a muoversi a ritmo di musica sotto la scrivania. Sono ufficialmente sotto shock. Non è possibile che IO stia facendo una cosa del genere. Mi chiedo come sia possibile che il mio animo da rockettara dura & pura mi stia tradendo in siffatta maniera. Nel frattempo canticchio pure. Come possono una melodia orecchiabile (senza neanche un misero riff di chitarra) e una vocetta da adolescente (il mio regno per un graffiato) non causare in me reazioni di rifiuto?
Traumatizzata dalla realtà che mi trovo davanti, chiudo istintivamente il browser e decido di ribellarmi alla debolezza palesata dalla mia anima di donna corruttibile. Cerco una spiegazione logica “per quel piedino”. Ok, erano canzoni commerciali, scritte per colpire al primo ascolto e rimanerti in testa. Dev’essere per questo. La mia testa cerca piano piano di rasserenarsi, ma sono ancora destabilizzata. A questo punto compio l’unica azione in grado di placarmi: “metto su” “Shine on you crazy diamond” (nel frattempo chiedo scusa pure a Syd Barrett che non fa mai male) e torno alla normalità. Tutto ciò che ho descritto in questo articolo non è mai successo. Non è possibile.
Vittoria Patanè