Life, recensione del film
Da un’ottima idea di partenza, in gran parte coincidente poi con la sceneggiatura di Luke Davies, Life è un film riuscito a metà. Troppa maniera e poco sostanza per un cineasta che, al suo quarto lungometraggio in otto anni, si trasforma ancora una volta in cronista e fotografo di una morte annunciata. Dopo aver ritratto il tormento esistenziale di Ian Curtis, leader dei Joy Division in Control, passa dal bianco e nero posticcio (il film era stato girato a colori) ad un tono pallido e slavato, quasi volesse tinteggiare di malinconia i suoi quadri fotografici. Sempre elegante nelle rifiniture stilistiche e coerente con un linguaggio asciutto che spoglia il mito da ogni santificazione postuma, Corbijn rimane però parzialmente ingabbiato tra le maglie di una sintassi monocorde in cui si dilata a dismisura una vicenda biografica che, in altre mani – penso a quelle di Olivier Assayas per esempio – sarebbe divenuta una vera materia da romanzo filmico. Tra ammiccamenti e pose da set fotografico la storia prosegue a singhiozzi, lungo le direttrici temporali dell’America brillantinata anni Cinquanta in cui si consumano due vite allo sbando. Parlo naturalmente di quelle di James Dean e di Dennis Stock, le due figure su cui è ritagliato un dramma che racconta la costruzione iconografica della star in ascesa di Gioventù bruciata. L’edificatore della “sacra immagine”, capace di originare il fenomeno dei deanagers (i fan universali di “Jimmy” Dean) esplosi di lì a poco, è Dennis Stock, il “cattura immagini” dei set e dei red carpet per conto dell’agenzia Magnum, interpretato da un Robert Pattinson definitivamente cresciuto; l’altro, il divo bruciato per antonomasia, è Dane DeHaan, uno dei ragazzini coi superpoteri di Chronicle. All’interno di un forte legame di amicizia l’uno “sfrutta” l’altro per ottenere, reciprocamente, imperitura fama, chi “nella valle dell’Eden” e chi sulla copertina di Life. Strano a dirsi ma in Life, manca proprio l’ingrediente che ha reso celebre la poetica di Anton Corbijn, cioè l’imprevedibilità. Specialista in rivoluzioni generazionali, il regista né crea il doloroso incantamento dell’outsider ombroso come aveva fatto con Curtis, né riesce a modulare la storia secondo i dettami del mito anarchico. Il suo è un “caos calmo”, svuotato dalle tensioni profonde che avrebbero dovuto essere, se non visibili, almeno percepite nel dolore provato dai due protagonisti. Un lamento che grida ambizione e ansia di protagonismo. In mezzo a momenti riusciti che si illuminano nella messa a fuoco della relazione – basti pensare alle declamazioni poetiche da Mark Twain e J. W. Riley di Dean o alla refrattaria silhouette di James Dean pronta per lo scatto – rimane però il freddo distacco di un’opera che non riesce a portare a galla il senso di quella vita d’attore annegata dalla celebrità e autentica solo in mezzo agli affetti, e neanche l’altra esistenza, quella caparbia di Stock che stringe il suo obiettivo cercando di raggiungere la tanto agognata fama. Life, in fin dei conti, è la storia di un’istantanea diluita in una (falsa) amicizia, canto a due, tra soggetto e oggetto, di corpi smorti nel buio della camera oscura e corpi irriverenti che, da narcisi irrimediabili, calcano il “red carpet” del palcoscenico della vita, fino a rimanere incendiati nella “bastarda” Porsche 550. Voto: [usr 2.5]
Life, trama
Los Angeles, 1955: Dennis Stock, fotografo dell’agenzia Magnum, si reca a un party organizzato dal regista Nicholas Ray e conosce James Dean, stella in ascesa del firmamento hollywoodiano prostrato dalla sua ultima fatica Nella valle dell’Eden. Sognando la copertina del prestigioso magazine Life, Stock pedina il divo finché lo convince a fare da soggetto per un servizio fotografico. Tra i due si instaura un forte legame di amicizia che, col passare del tempo, si trasformerà in occasione di rivalsa per entrambi.