Ogni volta che dobbiamo comprare un vestito, diventa una tragedia. Ci sono abiti che battono tutte le nostre affinità e, come un colpo di fulmine, ce ne innamoriamo. Poi ci sono quei vestiti che all’apparenza ingannano: più gli amici ci spingono a provarli e più si allontanano dalle nostre abitudini. Un po’ come quell’uomo che accidentalmente inciampa nella nostra vita e successivamente ne diventa le fondamenta di una rara felicità. Lo stesso vestito che sul corpo laccato della donna manichino perde di valore, sul nostro corpo si esalta perché i sarti avevano ben curato le linee in base delle nostre curve naturali. Il vestito poi deve essere perfettamente curato, abbinato a dettagli capaci di renderlo unico, nostro. La forma del tacco, per alcune, l’usura dello stivale, per le altre, insieme alla ricercata scelta dei gioielli, ovviamente quanti il vestito permette, poi ancora il trucco, il taglio e infine, ma fondamentale, la scelta del portamento. Credo nella perfezione dell’abito e per perfezione intendo la cura data per concepirlo.
Nel periodo della preparazione della mia laurea, seguivo dei corsi settimanali in cui un mio docente ci seguiva passo passo nella realizzazione della nostra collezione. Si partiva dal mood, poi dalla forma degli abiti, la descrizione della musa da reinterpretare secondo la nostra visione e il nostro stile. Poi si progettavano le forme degli abiti, i colori e infine i tessuti che potevano reggere le forme disegnate. Realizzata la collezione cartacea lo stilista si muniva di squadre, matite e conti e su carta disegnava manualmente i pezzi, ritagliava la stoffa e la cuciva per ricavare la forma progettata. Ero a metà del mio percorso quando in una conversazione confidenziale, durante la lezione, il Maestro ci chiese cosa volevamo diventare. Tutti, compreso me, ci riempimmo la bocca di nomi della moda. Guardandomi, l’insegnante disse che l’epoca dei festini modaioli e delle mani di ferro era finita. Il bravo stilista, secondo lui, doveva essere prima sarto, poi uomo. Mi fa ridere, oggi, ripensare a quelle parole. Ho riflettuto, già subito dopo il diploma, su cosa dovessi fare e di certo non volevo coprirmi il nome con un altro marchio. Volevo semplicemente essere moda, come quella dettata da Chanel, come quella sofferta delle sorelle Fontana, me non la loro. Volevo una Donna mia.
Per ogni corpo, secondo me, c’è un taglio, una pence, un centimetro diverso dagli altri ed erano i dettagli che rendevano belle le signore di un tempo. Allora io do il via, o meglio, il ben tornato al metodo passato. Sono pronto a gettare le buste da collezione per fare spazio alle meravigliose scatole delle dame corteggiate come nei film. Sono pronto ai difetti che il sarto dovrà coprire per modellare il mio corpo, curato dalle mani e dal cuore di uno specialista, non dai laser di una macchina. Chiamiamoli negozi, shop, o boutique, termine che preferisco. Che ne dite di vestirci di vero Made in Italy? Io sono pronto, e voi?
Crico