In passato, insieme all’America, era una specie di terra promessa, un El Dorado in cui trovare lavoro, denaro e opportunità. Oggi, invece, la Gran Bretagna si lamenta per la “fuga dei cervelli”, problema che non riguarda solo l’Italia e che i due paesi affrontano in modo completamente diverso. L’allarme è stato lanciato da Nick de Bois, conservatore, che ha pensato di istituire una commmissione parlamentare per indagare sul fenomeno ed, eventualmente, prevedere agevolazioni fiscali per frenare l’emorragia di talenti verso l’estero.
Il Telegraph, che riporta una lunga intervista a de Bois, scrive: «Due milioni di persone in età lavorativa hanno lasciato la Gran Bretagna nell’ultimo decennio per quella che si piò definire una “fuga di cervelli” che danneggia l’economia e costringe i datori di lavoro ad assumere immigrati».
Secondo l’Ufficio nazionale di Statistica, a lasciare il regno Unito dal 2001 al 2011 sono stati oltre 3 milioni e 500 mila persone e, contrariamente alle attese, solo in minima parte si tratta di pensionati alla ricerca di un luogo caldo in cui trascorrere la vecchiaia. Quasi 2milioni, invece, sono giovani dai 25 ai 44 anni, di cui molti laureati che lasciano il Paese in cerca di lavoro nei settori farmaceutico, aerospaziale e ingegneristico. Le destinazioni sono Stati Uniti, Nuova Zelanda, Canada, Australia e Sud Africa, mentre Francia e Spagna sono privilegiate dai pensionati.
Secondo de Bois il problema, prima che economico, è culturale. La Gran Bretagna, infatti, «dovrebbe incoraggiare il successo e la ricchezza piuttosto che criticarli, creando nuove condizioni economiche e promuovendo i valori di competitività e affermazione personale».
Parole che colpiscono in modo particolare noi italiani, che siamo abituati a tutt’altro modo di trattare la questione. Per i britannici, la fuga di cervelli è considerata una sconfitta più che un’opportunità. Essere costretti ad andare all’estero per trovare il lavoro dei propri sogni, quello per cui si è studiato, è sicuramente indice che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe, a livello sociale ed economico. Senza contare i capitali, umani ed economici, che andrebbero ad arricchire altre nazioni impoverendo quella d’origine.
In Italia, invece, l’emigrazione dei talenti verso l’estero viene quasi incoraggiata. Secondo i dati diffusi dall’Istat, i laureati 25-40enni espatriati nel 2011 dall’Italia sono circa settemila. Al primo posto tra le loro destinazioni c’è proprio la Gran Bretagna, seguita da Svizzera, Germania, Francia e Stati Uniti. Politici e governanti sembrano addirittura contenti che i giovani vadano a lavorare fuori piuttosto che rimanere in patria a lamentarsi del lavoro che scarseggia, pretendendo magari che si faccia qualcosa per risolvere i problemi. La crisi c’è un po’ dovunque ma non può e non deve essere uno scudo dietro il quale nascondersi, rimanendo nell’immobilismo più totale. Le risposte che ogni Paese saprà dare ai suoi problemi, il valore che saprà attribuire ai suoi giovani talenti farà la differenza tra il successo e la sconfitta.
Piera Vincenti