L’uomo ha un sogno che continua a inseguire senza tregua, anche a costo di far del male agli altri e quindi a stesso. Questo sogno si chiama felicità, uno stato psicofisico che ha ispirato poeti, scrittori e filosofi, alimentando la speranza di molti. Qualcuno, come Leopardi, non l’ha riconosciuta e si è arreso, trovando conforto solo nel pessimismo. Altri l’hanno sfiorata. Pochi l’hanno percepita, accarezzata, fatta propria. Queste persone si emozionano guardando il sorriso di un bambino, lo sguardo sapiente di un anziano, l’alternarsi del tramonto con l’alba oppure ascoltando il suono del ritmo cardiaco, sinonimo di vita…
Gioiscono per poco e si stupiscono quotidianamente di fronte al miracolo della natura, anche quando questa sembra spietata, inclemente e, anziché definirla matrigna, trovano in essa un’alleata. Loro, pur avendo paura, guardano gli eventi da più angolazioni e hanno fiducia in quell’energia da cui è nato il Tutto. Shimon Edelman, presentando il suo libro “La felicità della ricerca” al Festival delle Scienze di Roma, dedicato alla mente e al cervello, ha affermato che «la felicità non sta tanto nel raggiungimento di uno scopo prefissato quanto in ciò che si fa per raggiungerlo». Questo stato della mente, a cui tutti aspiriamo, ha precisato Edelman, «è la consapevolezza del nostro vivere quotidiano, anche nelle situazioni che sembrano poco positive». Il neuroscienziato ha inoltre sostenuto che il passo verso la felicità è anche la ricerca di noi stessi, come si evince da alcuni studi. In sintesi più conosciamo i meccanismi della nostra mente più la felicità è a portata di mano. E la memoria gioca un ruolo importante in questo processo, poiché i ricordi ci fanno rivivere il percorso fatto, rendendoci consapevoli di dove eravamo e di dove siamo arrivati.
Sono gli scopi che fanno alzare l’essere umano ogni mattina dal proprio letto con la voglia di scoprire ora per ora i regali del nuovo giorno…
Maria Ianniciello