Una terra affascinante e misteriosa che si divide tra altipiani sconfinati, savane ricche di fauna selvaggia e spiagge mozzafiato. Stiamo parlando del Kenya, che per buona parte del secolo scorso ha rappresentato la meta classica del turismo africano equatoriale e oggi è la destinazione preferita da quanti amano il mare. Una terra ricca di fascino e per molti versi sconosciuta, che offre molto di più del relax delle sue spiagge o dell’avventura delle sue savane. Il Kenya, infatti, è la culla di civiltà ancestrali che sono rimaste estranee alla modernità dei nostri tempi.
Del Kenya e della sua popolazione abbiamo parlato con Massimo Bocale, co-autore del libro Kenya: un infinito safari tra culture ancestrali e i Big Five d’Africa (Polaris Edizioni), che ci ha spiegato come l’antico sistema tribale keniota sia sopravvissuto a circa due secoli di turismo occidentale.
«Si tratta di popoli dalle tradizioni antichissime che sono riusciti a preservare intatta la loro cultura anche grazie all’ambiente ostile in cui vivono. Le tribù nomadi o seminomadi si muovono nelle zone circostanti il Lago Turkana, il più salato d’Africa, o le savane come il Masai Mara, luoghi di rara bellezza ma impietosi per le popolazioni che vi risiedono. Il sistema tribale è molto articolato ma sostanzialmente possiamo distinguere due grandi gruppi: i Nilotici a cui appartengono, ad esempio, i Masai e i Kalenjin, e gli Oromo, tra cui ci sono i Borana che sono più stanziali ma vivono comunque in zone estreme. Difficilmente il turismo occidentale arriva in queste località, dove non ci sono strutture residenziali, negozi e punti di rifornimento per il carburante. Le popolazioni locali, quindi, hanno poche occasioni di contatto con il mondo occidentale e riescono a conservare la loro purezza».
L’influenza occidentale si è fatta sentire solo in minima parte. Scarse o quasi nulle le forme di contaminazione che hanno contagiato le tribù keniote. «Gli antichi popoli nilotici, i figli del Nilo – prosegue Bocale – ancora oggi usano poggiatesta simili a quelli di Tutankhamon per proteggere le elaborate acconciature. Gli uomini portano all’orecchio destro tanti orecchini quante sono le mogli, e al sinistro quanti sono i figli, oltre al piattellino labiale tipico di alcune tribù. Continuano a utilizzare armi tribali tipo lance, bracciali da polso e anelli uncinati ma non è raro vedere persone che vanno in giro con vecchi fucili, anche se scarichi. Qualcuno sfoggia orologi come ornamento, ma spesso sono rotti e inutilizzabili».
Il sistema sociale e di credenze, invece, non è stato intaccato dall’avvento degli europei. «I kenioti continuano a essere animisti, adorano il dio della pioggia e credono che ogni essere vivente sia abitato da uno spirito. La religione tradizionale è stata conservata e i rari contatti delle popolazioni locali con il cristianesimo si limitano alla frequentazione delle poche missioni europee avviate in alcune zone del Paese».
La cultura e le tradizioni dei kenioti sono minacciate dalla recente scoperta del petrolio. «Non so fino a che punto riusciranno ancora a preservarsi dalla contaminazione», dice l’esperto che spiega più nel dettaglio il sistema sociale sul quale si basano le tribù. «Tra i diversi gruppi vige un odio atavico ma all’interno l’organizzazione è abbastanza complessa. Innanzitutto bisogna distinguere tra Nilotici e Omoro, la cui struttura è articolata in base al cosiddetto ordine gadā. In breve, la tribù è divisa in otto gruppi detti gadā. Ciascun componente alla nascita viene inserito nel gadā di due ordini inferiori rispetto al padre, perciò in uno stesso gruppo è possibile trovare persone appartenenti a ogni fascia d’età. Ogni otto anni si avanza all’ordine superiore e si elegge il capo che controlla tutta la tribù. Le popolazioni nilotiche hanno un ordinamento diverso che non prevede un capo o un’organizzazione sociale strutturata, ma soltanto la presenza di sciamani, stregoni che, al pari degli ornamenti indossati, hanno lo scopo di proteggere gli individui dagli spiriti maligni».
Diversi anche i compiti che spettano a uomini e donne: «Le donne lavorano molto – racconta Bocale – Valgono di più se fanno figli maschi, sono proprietarie della capanna in cui vivono e tra le loro mansioni c’è accudire i figli e gli animali domestici, e andare in cerca di legna da ardere. Gli uomini, invece, si occupano degli zebù, grossi mammiferi domestici simili ai tori. Questi animali rappresentano una ricchezza per le tribù keniote che si nutrono del loro sangue, o bevendolo direttamente dopo aver inciso la giugulare o mischiandolo al latte. Secondo la credenza, tutti gli animali del mondo appartengono alla tribù quindi capita spesso che si rubino il bestiame vicenda».
Tanti e complessi i volti del Kenya, un variegato scenario che lascia spazio alla fantasia e alimenta la sete di libertà, quella voglia primitiva di riscoprire l’antico legame con la natura, tanto bella e selvaggia quanto crudele.
Piera Vincenti