L’Alzheimer si cura anche con l’arte

alzheimerVisite ai musei e attività artistiche producono emozioni benefiche capaci, come i farmaci, di rallentare la demenza senile. L’Arteterapia è una sorta di efficacissima sindrome di Stendhal al contrario: l’overdose di bellezza che può stordire una persona particolarmente sensibile, avendo straordinari effetti benefici su una mente compromessa e provocando emozioni capaci di rallentare la malattia, in certi casi né più né meno di alcuni farmaci. Ad annunciarlo Giulio Masotti, presidente onorario della Società Italiana di Geriatria, che ne parla alla vigilia del  quarto Convegno nazionale sui Centri Diurni Alzheimer, in programma a Pistoia dal 31 maggio al primo giugno 2013 e  promosso dalla locale Fondazione Cassa di Risparmio.  I dettagli della ricerca si evincono nelle relazioni La memoria del bello della geriatra Luisa Bartorelli, direttrice del Centro Alzheimer della Fondazione Roma, e Le Strategie a mediazione artistica nei Centri Diurni di Silvia Ragni, psicologa e musicoterapeuta. Bartorelli e Ragni spiegano entrambe come e con quali felici risultati hanno condotto decine di pazienti a visitare i musei della capitale e come li hanno coinvolti in attività artistiche, come pittura, musica e danza.

«I benefici sono generali ed evidenti – spiega Ragni -. I pazienti sono più motivati a partecipare; percepiscono maggior benessere e dunque si riducono i tipici sintomi negativi del comportamento. Cresce l’autostima, migliorano la qualità della vita, il tono dell’umore e, di conseguenza, le stesse relazioni con operatori e familiari che vedono con soddisfazione i loro cari coinvolti in attività gratificanti. Si apre così la strada a nuove sperimentazioni».

La più innovativa, mutuata dal MoMa di New York, è appunto La memoria del bello, il progetto che in questi mesi ha mobilitato alcuni Centri Alzheimer romani. Bartorelli afferma: «Abbiamo condotto un gruppo di 12 pazienti in fase lieve-moderata alla Galleria d’Arte Moderna, accolti dalla direttrice Martina Di Luca (anche lei relatrice al convegno, ndr). E una settimana dopo, al Centro, abbiamo proiettato per loro il filmato della visita. Trascorso un mese, ne abbiamo messo alla prova la memoria. Infine abbiamo chiesto ai familiari se e che cosa fosse cambiato».

Picasso
Picasso

Tutto ciò ha consentito di registrare per ciascun paziente una precisa griglia di reazioni cognitive, affettive e comportamentali, con note sulle loro manifestazioni verbali, ovvero sui commenti o racconti fatti durante ogni incontro. Dalle risposte dei familiari emerge che 11 dei 12 pazienti hanno riferito con entusiasmo l’esperienza, per molti nuova, descrivendo i dipinti, ricordando le impressioni ricevute, mostrando con orgoglio e custodendo con cura la cartellina, con le opere viste, ricevuta a fine visita. «Anche se affette da patologia cognitiva – insiste Bartorelli – queste persone sono in grado di valutare l’esperienza estetica con il risultato che, in non pochi casi, si sono riattivate memorie lontane e una vitalità apparentemente esaurita».

Entrare in un luogo “del bello”, come ha detto un paziente, ha rinforzato autostima e senso di sé. Durante le visite, per di più, nessuno si è tirato indietro o ha manifestato disturbi del comportamento. A scanso di illusioni, va ricordato che la malattia è tutt’oggi inguaribile e che comunque progredisce. «Ma alla luce dei fatti – sostengono le due esperte – l’emozione estetica sembra capace di migliorare lo stato funzionale o comunque di minimizzare il peso esistenziale. L’arte è un ricostituente della memoria, un’iniezione di vitalità».

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