Lasciata Berlino, siamo a casa. Quindici ore di auto con coda nei pressi del Brennero ed eccoci di nuovo in Italia. Anche per quest’anno il lungo viaggio estivo è finito e ora è tempo di rielaborare il tutto e di tirare un po’ le somme. Budapest, Cracovia, Varsavia, Danzica e Berlino. Cinque città che in modo diverso lasciano il segno.
Budapest, l’ottocentesca, con i suoi viali asburgici e i suggestivi scorci sul Danubio, è un tuffo nella belle époque, in un passato che non c’è più. È simbolo di una decadenza, quella imperiale, che continua ad affascinare, un po’ come succede a Vienna. Ma a questa decadenza si contrappone oggi, e ve l’abbiamo raccontato, la creatività, lo spirito di iniziativa, l’arte e la musica del quartiere che fu il ghetto di Budapest, ossia il settimo distretto della città, con i suoi pub di rovine e gli atelier improvvisati.
E poi Cracovia, Varsavia e Danzica, quello che abbiamo potuto visitare della Polonia, vera scoperta di questo viaggio. Città diverse ma tutte accoglienti, vivaci, immagine di una Polonia in trasformazione. Alina, una donna polacca che dalla fine della guerra fredda si è trasferita a Berlino e che abbiamo incontrato sia a Danzica che, giusto qualche giorno dopo, nella sua attuale città, ci ha raccontato di come il suo Paese stia cambiando rapidamente, di come oggi faccia un po’ fatica a riconoscere alcuni dei posti visitati da ragazza, di come il ricordo delle lunghe code fuori dai piccoli alimentari, con tanto di tessera per il cibo, sia con gli anni sempre più sfocato.
Tutte le mete del tour raccontano, infatti, di quell’Europa che era a est della cortina di ferro. Un’Europa che, almeno nelle città principali, ha lasciato spazio al modello occidentale, con grandi centri commerciali all’avanguardia (molti più moderni di alcuni italiani), note catene d’abbigliamento e uno stile di vita che, soprattutto tra i giovani, è pressoché identico a quello del resto dell’Europa. Nessuna coda agli alimentari e nessun cibo razionato, quindi, semmai la solita voglia di acquistare in maxi centri, con negozi dislocati su quattro piani.
Una cosa ci ha incuriosito parecchio spostandoci, anche se per breve tempo, in tre dei paesi che furono del blocco sovietico ed è il diverso approccio che Berlino sembra avere nei confronti del regime passato. Se, infatti, in Ungheria e in Polonia (ma potremmo aggiungere anche la Repubblica Ceca, visitata un paio di anni fa) il comunismo è raccontato in una chiave estremamente negativa, con musei del terrore sorti un po’ ovunque, strade e vie che cambiano drasticamente nome (ricordate piazza Ronald Reagan a Nowa Huta, a Cracovia?) e statue da conservare in luoghi un po’ defilati, come il Memento Park che vi abbiamo raccontato da Budapest, Berlino è tutta un’altra cosa. Forse più abile nello sfruttare turisticamente quello che, al di là delle interpretazioni, è patrimonio storico, Berlino non cancella la DDR, anzi, la racconta a volte con toni un po’ nostalgici. Sono numerose, ovviamente, le differenze tra i regimi più a est, sempre sotto il controllo sovietico e la costante minaccia di un intervento dell’Armata Rossa (il ’56 a Budapest e il ’68 a Praga ne sono gli esempi più eclatanti), e quello della Repubblica Democratica Tedesca, in cui alcuni, a prescindere dall’innegabile natura repressiva del regime, hanno creduto. Sarà stata questa differenza di fondo oppure, ed è molto probabile, l’epilogo della storia delle due Germanie, con la totale cancellazione di uno dei due mondi e l’adozione del modello occidentale.
Eliminare quarant’anni di vita non è semplice ed è forse per questo che oggi si parla di Ostalgia, la nostalgia della Germania Est. Il museo della DDR, nei pressi del Duomo, i locali o i negozi che ripropongono i cibi e gli oggetti tipici di Berlino Est e una vera venerazione per la Trabant addolciscono, oggi, il ricordo del socialismo. Infine le vie, che a Berlino possono anche continuare a chiamarsi Karl Marx Alee.
E poi, accanto alla storia del dopoguerra, il dramma dell’olocausto, per me mai così tanto tangibile come durante questo viaggio in Polonia: da tre milioni di persone prima della guerra a meno di centomila. Numeri, questi, che fanno davvero comprendere la mostruosità del nazismo. Abbiamo visitato i ghetti delle città e passeggiato per i quartieri in cui oggi vivono comunità decimate; Daniele ha indossato la kippah ebraica per entrare nelle sinagoghe e nei cimiteri e abbiamo “conosciuto” alcuni giusti, non ebrei che hanno cercato di salvare la vita a molti perseguitati, da Perlasca al farmacista di Cracovia; infine, anche se ho preferito non raccontarlo, abbiamo visitato i campi di Auschwitz e di Birkenau. Insomma, è stato un mese sicuramente impegnativo.
Oggi, qui sul balcone del mio piccolo appartamento, a Lecco, penso ancora una volta a come i viaggi possano formarci, arricchirci, renderci migliori. Perché, come dice John Steinbeck, «le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone».
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Valentina Sala