Roma, 1823, Carnevale. Nel periodo del regime pontificio, particolarmente repressivo, di Pio VII, la passione amorosa sboccia tra due giovani: Cosimo Ristori, nobile, e Benedetta Velami, figlia di Arnolfo, (un credibile Pierre Bresolin) potente e torbido direttore generale delle finanze dello Stato Pontificio. Amore osteggiato con cattiveria dal padre di lei. Giovanni Battista Bugatti, in arte Mastro Titta, il celebre boia di Roma, ha il suo segreto proprio nel giovane rampollo, figlio di una fugace relazione con la moglie dell’amico Prospero Ristori, Letizia. Una serie di vicende, orchestrate con perfidia da Arnolfo Velami, condurranno il giovane Cosimo ad essere ingiustamente accusato di omicidio e, di conseguenza, portato al patibolo. Il suo carnefice dovrà essere proprio Mastro Titta, il suo padre naturale.
A questa, che potrebbe essere una storia drammatica, in un’ambientazione temporale da cui sono nati capolavori del cinema e del teatro, basti pensare ai film di Luigi Magni o al sempreverde Rugantino, gli autori (Pippo Franco, Massimiliano Giovannetti e Claudio Pallottini) scelgono di far indossare i panni della comicità a tutti i costi, a volte forzatamente, tanto da rendere alcune scene quasi surreali, ai limiti del grottesco. Guidati dalla regia dello stesso Franco, con movimenti scenici atti a rappresentare quadri di vita in sincrono con quelli proiettati sullo sfondo, scelta scenografica curiosa ma non disprezzabile, soprattutto in tempi difficili come quelli attuali, i protagonisti sul palcoscenico del Teatro Roma risultano essere bravi e divertenti. Gradevoli ed a tratti esilaranti i battibecchi tra Mastro Titta (Pippo Franco) e la sua compagna Nunziata (Gegia), “fresca” la recitazione dei due giovani innamorati (Greta Bellusci e Rodolfo Castagna). Stefano Antonucci e Simone Tuttobene, rispettivamente nei ruoli del Marchese Ristori e del commissario del popolo, nonché del suo fratello gemello prete, si confermano affidabili attori ormai da tempo. Le altre due donne del cast, le belle e fascinose Loretta Rossi Stuart (donna Letizia) e Mandita Musat (contessa rumena, amica di famiglia Ristori) completano un cast che dà l’impressione di essere sottoutilizzato. Valutandola complessivamente, la drammaturgia di quest’opera risulta forse troppo centrata sulle battute “tirate”, sulla ricerca continua di un parallelismo tra i malaffari dell’epoca e quelli attuali che, seppur veritiero, proprio per l’insistenza perde efficacia. Di spunti interessanti ce ne sono, come la figura dello stesso Mastro Titta, in bilico tra un mestiere di cui è prigioniero, (“vittima della legge che devo applicare”), e un suo lato spiccatamente spirituale che fa capolino più volte nello spettacolo. Come la dicotomia tra essere e avere, cui si fa riferimento immaginando un futuro in cui l’uomo rifiuterà l’amore, sacro o profano che sia. Spunti che sarebbe stato interessante sviluppare ma che si perdono, poi, nella ricerca ossessiva della battuta ad effetto, forse occhieggiante a un pubblico fidelizzato, che si aspetta e vuole tutto ciò.
Restiamo convinti che interpreti simili possano fare molto di più, riuscendo a far ridere o sorridere ugualmente, trasformando un buono spettacolo in qualcosa di memorabile. Devono crederci gli autori. Di stoffa ne hanno tutti, la loro storia sta lì a dimostrarlo.
Paolo Leone
Lo spettacolo è allestito a Roma, Teatro Roma (via Umbertide 3) dal 25 marzo al 13 aprile
Produzione: Baldrini
Regia di Pippo Franco; Costumi: Sorelle Ferroni; Calzature: Pompei; Disegno luci: Valerio Modesti, Attrezzi di scena: Rancati;
Con: Pippo Franco, Gegia, Loretta Rossi Stuart, Stefano Antonucci, Simone Tuttobene, Rodolfo Castagna, Greta Bellusci, Pierre Bresolin, Mandita Musat