Tempo! Una vita scandita dal tempo, il suo personalissimo e ricercatissimo tempo. Sessanta anni di tempo frenetico, mai con le mani in mano, semmai sulla sua amata batteria, questo si. Tempo di consuntivi, forse, alla luce delle riflessioni indotte dalla malattia che arriva come un cavallo selvaggio da domare, un’ennesima sfida in una vita che non gliele ha mai risparmiate, un’ultima partitura da interpretare senza sbagliare una percussione. E’ così che uno dei batteristi più grandi al mondo si ritrova con una penna in mano, al posto delle solite bacchette, per scrivere il suo libro, il suo “grido di verità”, dirà al nostro giornale.
«Ci ho messo diciannove mesi per scrivere ‘sto libro – dice ridendo De Piscopo – diciannove mesi e due sole mani, perché veramente è roba mia. Mi sono fatto aiutare da due amici che hanno dimestichezza col personal computer, perché io non sono veloce, ma io dicevo loro: quello che dico, scrivete, poi si corregge, si aggiusta!». Condotta da Marco Molendini, critico musicale de Il Messaggero, la presentazione del libro di Tullio De Piscopo si è caratterizzata di grande calore umano, quello trasmesso dal grande musicista, che con la sua naturalezza, semplicità e serenità ha intrattenuto il numerosissimo pubblico accorso nella libreria IBS di via Nazionale a Roma raccontando i punti salienti delle sue pagine e, naturalmente, deliziandolo con tre esibizioni alla batteria, accompagnato dal chitarrista Marco Massa. L’incipit del libro è la scoperta del tumore, i pensieri, le angosce, ma con la forza da guerriero. «Non sono pronto! – racconta –. Quell’esclamazione scritta nel libro è stata la mia forza per affrontare il mostro e tornare alla vita. La Madonna ha fatto ‘o miracolo, l’ho capito dopo. Da una diagnosi sbagliata sulla prostata, a Monza, una serie di analisi fecero scoprire per caso il tumore poi». La storia nel libro riparte dagli inizi, da lui scugnizzo nei vicoli di Napoli, all’incontro con Milano «che mi ha costruito» e con Bologna: «In quelle città si faceva jazz e quando mi trasferii a Milano, in una pensione malfamata che si chiamava Do-Re-Mi, guadagnavo settemila Lire al giorno, ma l’alloggio mi costava settemilacinquecento. – ricorda –. Dopo tanti anni tornai a saldare tutti i miei debiti, ma nemmeno si ricordavano».
Dagli stenti iniziali, le sorprese amare: «Non si affitta ai meridionali lo trovavamo scritto su tanti appartamenti che visitavo con mia moglie Dina», agli incontri con le grandi personalità della musica mondiale, cercati o fortuiti, «come quello con Astor Piazzolla, un grandissimo musicista, con lui feci 10 LP, o con Pino Daniele, col quale non avevo nemmeno bisogno di provare per il feeling che avevamo». Il feeling è un concetto che torna spesso nelle sue considerazioni: «Trovare il feeling con l’altro – spiega Tullio – questo è il jazz… non tutti i musicisti ascoltano». I viaggi, gli aneddoti sulla nascita di tante canzoni e composizioni, la disciplina ferrea di Piazzolla e l’amicizia con i più grandi jazzisti del mondo, come Max Roach: «Forse la più grande soddisfazione della mia vita aver collaborato con lui, per caso… vedete la vita come è bella?». E poi Chet Baker, Gerry Mulligan, il successo che arriva ma che non riesce, fortunatamente, a strappargli le radici, a fargli dimenticare la sua profonda umanità, allevata nell’infanzia napoletana. «Devo molto a Napoli – precisa – alle mie origini, a quell’isola felice che era Porta Capuana. Il suo ritmo, i suoi odori, li ho sempre portati sulla mia batteria e sulle mie percussioni!». Interrotto da mirabolanti esibizioni musicali, da par suo, il racconto continua ma sempre molto colloquiale, quasi cerca (e trova) il contatto con le tante persone presenti, Tullio, con una rilassatezza e spontaneità davvero invidiabili. Saluta gli amici, ha una parola per tutti, uno sguardo per ogni fan, compresa la cantante Awa Ly che arriva a sorpresa in libreria ad ascoltarlo, confusa tra i tanti. Si percepisce benissimo che per lui i rapporti umani vengono prima di ogni altra cosa; potersi emozionare insieme agli altri è la sua vita, che siano gli amati nipoti, gli amici, i colleghi, il suo pubblico. «Questo libro parte con un filo conduttore, la malattia, un filo emotivo – conclude – per dare un senso a tutta la mia vita. Prima tenevo nascosto tutto dentro di me, ma non ce la facevo più. Tornare sul palco a Napoli, poco dopo la dimissione dall’ospedale, nel concertone “Tutta n’ata storia”, (2013 – ndr) è stata un’emozione nuova, ancora nuova, sembrava la prima volta! Fu un concerto magico! L’amore, l’amore, l’amore!». Ci saluta come un vecchio amico, con tanto di buon consiglio, saggio: «La prevenzione è la chiave di tutto, guagliò!». Sorridente, sereno, si concede volentieri ai tanti in fila per una dedica sul libro. Con la gioia di vivere.
Paolo Leone