La recensione del nuovo album di Lenny Kravitz “Strut”
Come al solito, quando Lenny Kravitz pubblica un nuovo album convinto di aver scritto un disco rock, noi dobbiamo sempre tener presente che nel suo immaginario, “rock” è troppo spesso sinonimo di “funk”, “soul”, “pop”. Di ritmo, di chitarre tutt’altro che pesanti, ma anzi sofisticate, dove l’anima ruvida del musicista americano è addolcita dalle radici nere che rendono i suoi lavori così accessibili. Rock sarà il suo modo di vestire, di vivere, di atteggiarsi, anche. Ma quando metti mano a uno strumento diventa difficile continuare a mentirsi. E così esce fuori il vero spirito di Leonard Albert “Lenny” Kravitz, cioè un groviglio di influenze e derivazioni. “Strut”, decimo e nuovo album in studio del chitarrista di Manhattan, è un lavoro altalenante in cui episodi molto buoni si alternano ad alcuni colpi a vuoto, dove una certa stanchezza compositiva fa a pugni con canzoni decisamente belle. Neanche questa è una novità, dopotutto: Kravitz è sempre stato un artista da singolo vincente, più che da album indimenticabile. Anche se le sue canzoni da primo posto in classifica hanno fatto da traino perfetto per i 40 milioni di dischi che fino ad ora ha venduto nel mondo.
Come sempre, Lenny ha suonato tutti gli strumenti e si è occupato personalmente della produzione e degli arrangiamenti del nuovo album. Un aspetto che si percepisce nel momento in cui lui stesso dichiara che “il mio approccio alla produzione è stato quello di…non produrre l’album. Il punto focale era non pensare troppo a cosa fare, non tornare troppo sui miei passi”. Apprezzabile. Ma decisamente controproducente. Con più ponderatezza e qualche oculata sforbiciata qua e là, il disco ne avrebbe sicuramente giovato. Ma tant’è.
“Sex” è la open track nonché secondo singolo estratto dal disco e come inizio non c’è male: 4 minuti di energia con un basso molto robusto (come in gran parte delle canzoni qui presenti) e il tipico piglio pop di Lenny nella scrittura, soprattutto per la sua abilitànel creare ritornelli accattivanti. “The Chamber”conferma l’ottimo avvio dell’album. Singolo di debutto a fine giugno, miscela sapientemente funk e rock strizzando vagamente l’occhio alle discoteche. Una delle caratteristiche che ha sempre distinto la musica di Kravitz. Con “Dirty White Boots”si arriva finalmente al primo, vero pezzo di rock puro. Le radici nere del cantante menzionate prima si sentono corpose nella strofa blues, in cui voce e chitarra intrecciano un dialogo ben riuscito su un ritmo cadenzato.
Il ritornello esplode aggressivo con la sei corde elettrica che sembra suonare libera e slegata in una bella distorsione. In “New York City”si fa un tuffo nel passato con un riff molto 70’s e il basso sempre in primissimo piano. In questo caso sono soul e gospel che Lenny condensa in più di sei minuti di canzone e c’è da dire che la convivenza funziona e l’equilibrio regge. “The Pleasure and the Pain” non può certo definirsi una brutta canzone, ma sembra un pezzo scritto da Ben Harper più che dall’artista newyorkese.
Il ritornello ci riporta alla realtà e tutto sommato la canzone è morbida e gradevole, sebbene forse troppo lunga. La title track del disco, “Strut”, si comporta esattamente secondo il suo significato, ossia “andatura impettita”: il pezzo incede dritto e sicuro, pur non brillando particolarmente. Nell’alchimia ritmica di chitarra, basso e batteria si riconosce comunque il marchio di fabbrica di Kravitz. Il brano numero sette del disco, “Frankestein”, ricorda vagamente “If You can’t say no”, suo grande successo del 1998, ma assai piùricco di spunti e contenuti, con un’armonica delicata, sax e cori che si mescolano al tessuto ritmico legato al riff di chitarra elettrica. Ottimo episodio in cui emergono prepotenti contenuti blues e soul. Con i due pezzi successivi, “She’s a Beast” e “I’m a Believer”, Kravitz torna al nocciolo della questione, ossia il rock. La prima è una ballata con una bella chitarra acustica che si fa strada per tutta la canzone, mentre il pezzo successivo segna un po’ il passo e traccia la fase di declino del disco. La debolezza si perpetua in “Happy Birthday”, brano che nasce come una canzone d’addio per poi trasformarsi in un episodio più positivo. Debole e trascurabile come “I’m a Believer”. Poi c’è “I Never Want to Let You Down”con una buona strofa che funziona bene, ma un ritornello che zoppica e che soprattutto si fa troppo ripetitivo. Peccato, perché musicalmente ci siamo. Il finale è affidato alla cover di “Ooo Baby Baby”, grande successo del 1965 di William “Smokey”Robinson and The Miracles. Kravitz la ripropone praticamente tale e quale, in tutto. E forse fa anche bene, visto che la canzone era ed èperfetta così. Ma insomma, da una cover ci si aspetta una reinterpretazione personale e qui non c’è. “Strut”, in conclusione, è certamente un discreto prodotto discografico, ma siamo molto più sul pop che sul rock. E in questo non c’è assolutamente nulla di sorprendente, visto che parliamo di Lenny Kravitz. Ma è sempre il caso di dare un nome alle cose.
Paolo Gresta