La recensione di The Endless River, il nuovo album dei Pink Floyd
Una notizia buona e una cattiva. La buona è che i Pink Floyd sono tornati con un nuovo album, la brutta è che questi non sono i Pink Floyd. Dal giorno del suo annuncio, pubblico e critica aspettavano “The Endless River”, quindicesimo disco in studio della band più famosa del mondo, come se si trattasse di un oggetto in grado di salvare l’universo dai mali che lo affliggono. I più realisti invece erano semplicemente curiosi di ascoltare cosa contenesse. In fondo parliamo sempre di David Gilmour e di Nick Mason, ma anche del compianto Rick Wright, cui il disco è dedicato. Un po’ di scalpore è dunque d’obbligo. Un saluto a un amico, un commiato speciale a un musicista scomparso sei anni fa,che ha contribuito a creare queste canzoni ai tempi di “The Division Bell”, questo è “The Endless River”. Ma andiamo con ordine.
Nel 1994 i tre Pink Floyd rimasti, ormai “orfani” di Roger Waters, si riunirono per registrare proprio “The Division Bell”. Da quelle session uscì fuori parecchio materiale. L’idea iniziale fu quella di pubblicare un doppio album: uno composto da canzoni (“The Division Bell”, appunto) e l’altro da pezzi strumentali. Gilmour, Mason e Wright però cambiarono idea e molti dei brani creati in quel periodo rimasero negli archivi del chitarrista inglese. E’ proprio da qui che parte l’ispirazione per “The Endless river”. A distanza di 20 anni, i due musicisti hanno deciso di togliere il velo di polvere che copriva quelle registrazioni e le hanno affidate alle mani sapienti di Phil Manzanera, Youthe e Andy Jackson. Una volta lavorato, il progetto è tornato nelle mani dei due Pink Floyd che risuonano, modificano e riarrangiano ogni sezione, fino a creare tutte e quattro le parti del disco. A collaborare sono intervenuti Jon Carin e Damon Iddins alle tastiere, Guy Pratt e Bob Ezrin al basso, Gilad Atzmon al sassofono, tre coriste e il quartetto femminile d’archi elettrici Escala.
E’ così che nasce “The Endless River”. Un tributo, che molti considerano pretesto, a quel Richard Wright che in questo lavoro aveva messo tutto se stesso. Un disco ambient, strumentale, un sottofondo a volte di egregia fattura (“Louder Than Words”, “It’s what we do” e “Nervana” ) a volte un po’ forzato (quasi tutto il resto) che nulla ha a che fare con album come “The Dark Side of the Moon” o “The Wall”.
Non è un’opera per tutti, è una raccolta destinata a chi i Pink Floyd li conosce, li ama e che non ha alcuna intenzione di perdersi una chicca nella quale è possibile ascoltare alcuni echi di quel passato che ha fatto storia.
Andando più in profondità infatti (e dimenticando totalmente l’esistenza di “You Tube”, ultimo luogo in cui questo lavoro va ascoltato) è possibile percepire ancora il tocco elegante di Gilmour, qualche evoluzione di Mason, ma soprattutto un frammento suonato da Wright all’organo della Royal Albert Hall nel 1969 che commuove e rasserena.
Non è facile parlare di questo nuovo album se si amano i Pink Floyd. Pur avendolo ascoltato più e più volte, la sensazione di incompiutezza rimane lì, ferma. Non c’è quella voglia di scoprire quale nota seguirà alla precedente, non c’è più quella sorpresa nell’ascoltare quale geniale invenzione musicale siano riusciti a regalarci, non c’è più quel sorriso onirico che si stampa sul volto di tutti arrivati all’ultimo arrangiamento di un disco della band britannica. Ma c’è l’affetto di chi, pur sapendo che questi non sono i Pink Floyd, riesce a godersi qualche piccolo frammento. Perché proprio lì, in un dettaglio, in una nota si nasconde un po’ di quella grandezza che ci hanno regalato per anni.
Vittoria Patanè