Una strada affollata del Cairo, una mattina soleggiata in un altro tempo e le voci dei passanti e dei venditori che si confondono, confluendo nel fiume tempestoso di grida, saluti e interminabili trattative sul prezzo delle merci. Affronto la calca, ma so già che, per incontrare la protagonista di questa intervista immaginaria, dovrò recarmi in un luogo più tranquillo, adatto alla conversazione e alla riflessione con una grande donna, tanto determinata quanto seria e riservata.
Cerco risposte, come tutti, dopo i giorni tumultuosi della mia epoca, gli attentati a Parigi e il caos che ne è seguito. Arrivo davanti all’ingresso di una lussuosa sala da tè non molto distante dal centro della città, situata in una strada piuttosto silenziosa, quasi appartata e dall’aria signorile. Mi pare strana tutta questa quiete in un luogo vivace e pieno di vita come il Cairo benché, in un caso particolare come questo, la mente possa creare strade, case, interi paesi dal nulla, o magari perfino reinventarli partendo da ciò che già esiste o che è esistito un tempo. Tutto ciò, in realtà, è secondario ora. Ciò che conta davvero è la persona che sto per incontrare. Hoda Sha’rawi, femminista egiziana, o meglio, pioniera del femminismo egiziano, origini aristocratiche, grande cultura e tempra d’acciaio. La Storia non l’ha mai dimenticata e, del resto, come potrebbe finire nell’oblio il gesto che Hoda compì nel 1923, alla stazione del Cairo, di ritorno da un viaggio a Roma dove aveva partecipato al Congresso dell’Alleanza Mondiale Femminile? Si tolse il velo, Hoda, davanti a tutti, per dimostrare non solo la volontà di emancipazione delle donne arabe, ma la concretezza di questa volontà, capace di andare oltre le parole, oltre qualunque timore.
Un gesto impensabile per una donna egiziana del suo rango, per cui era prevista una vita tra le mura domestiche e un livello di studio basilare, impartito da un precettore che non aveva voce in capitolo sul tipo di istruzione da impartire agli alunni affidatigli. Entro nella sala da tè e il mio sguardo incrocia subito il suo. E’ seduta in un angolo riservato, un fine velo nero di lino a coprirle i capelli per poi scendere morbido sulle spalle. Mi avvicino rapidamente, è tanta la voglia di conoscerla, salutarla e scambiare con lei i convenevoli che sono parte integrante della cortesia araba. Parliamo in dialetto egiziano e in francese; l’idioma diventa un mezzo per giungere alla comprensione, per dialogare e scambiarsi conoscenza. Non perdo tempo; ho molte cose da chiederle. Dopo i saluti di rito ci accomodiamo e inizio l’intervista.
Signora Sha’rawi nel mio mondo i tempi sono tutt’altro che facili. L’estremismo islamico è arrivato da noi, nel cuore di Parigi, fatto di pallottole e minacce, odio e violenza. Per alcuni si tratta di una vera e propria dichiarazione di guerra da parte dell’Islam nei confronti dell’Occidente, uno vero e proprio scontro di civiltà. Come possiamo fermare tutto questo e tornare al dialogo, alla vera essenza della libertà?
(Hoda mi osserva alcuni istanti, in silenzio, quasi volesse ponderare bene le parole, poi fa un sospiro in cui è racchiusa tutta la consapevolezza della gravità della situazione e inizia a parlare, il volto serio ma disteso).
Il dialogo non è mai una competizione con un vincitore e un vinto. Quando si è disposti a tutto pur di ottenere ragione, si dimentica perfino il motivo per cui la conversazione è iniziata e si oltrepassano limiti che dovrebbero rimanere, invece, ben chiari e visibili per tutte le parti in gioco. Può accadere che ci siano diverse verità che discendono da altrettanti modi di pensare, tutti ugualmente rispettabili. Nel momento in cui si vuole imporre con la forza la propria versione della realtà, ecco che cade qualunque possibilità di dialogo. Dove c’è violenza, di qualunque natura essa sia, non può esserci né ragione né verità. Poco importa l’argomento su cui si dibatte. Mettere in mostra i muscoli, per così dire, è un mero esercizio di forza che non ha nulla a che fare con lo scambio di opinioni. La morte, poi, non è che una sconfitta in casi come questi. Non si possono costruire ponti di scambio culturale o edifici di idee sulla sabbia dell’ignoranza e della violenza. D’altra parte, però, questi ponti e questi edifici non possono neppure essere eretti con materiale fragile, inconsistente. Occorre che ogni pilastro sia fondato su un progetto, su una identità solida che gli consentirà di non franare. Questo vale per gli europei e gli americani come per l’Islam.
Secondo lei in che modo è possibile costruire una identità solida? Crede che il mondo islamico e quello occidentale l’abbiano persa del tutto?
L’identità di un individuo, così come quella di una nazione, si costruisce con il tempo, con le prove da superare e, soprattutto, con la conoscenza. E’ fondamentale, dunque, che ognuno di noi coltivi se stesso, si batta affinché l’istruzione sia garantita a tutti, uomini e donne, bambini e bambine di ogni ceto sociale e in ogni parte del mondo. Nella mia vita ho cercato, attraverso la mia Unione Femminista Egiziana, l’Unione Femminista Araba e le numerose iniziative collegate a queste associazioni, di rendere il diritto allo studio una priorità sull’agenda del governo egiziano. Soprattutto quello femminile e gli ottimi risultati mi hanno dato ragione. L’uomo senza istruzione è destinato a commettere gravi errori non sempre recuperabili, la donna ignorante, invece, accetta la sottomissione perché non ha argomenti per opporsi e non sa quanto sia sfumata e molteplice la realtà del mondo. La conoscenza, però, non basta. E’ necessaria la solidarietà che io ho sperimentato con le donne del mio tempo, al di là della loro classe sociale. La vicinanza crea una rete speciale di ricordi, di ideali e scopi più difficili da raggiungere individualmente. E’ così che si crea la memoria e, dunque, l’identità di un popolo. Sia gli occidentali che i musulmani, temo, stanno perdendo entrambe. I primi sempre più confusi sul loro ruolo politico ed economico, ma anche sulla definizione di libertà, i secondi aggrediti e spaventati dal furore dell’estremismo basato sulla cattiva interpretazione delle fonti islamiche, quando non su una vera e propria manipolazione di queste per fini poco nobili.
Quindi lei evidenzia il valore dell’istruzione, dell’identità individuale e collettiva e della solidarietà per esprimere al meglio, nella vita quotidiana, il concetto di libertà. Ma cosa è per lei la libertà? Come la definirebbe?
Credo che la libertà sia, per sua stessa natura, un ideale che si lascia sfiorare, immaginare ma mai afferrare del tutto. Almeno finora. Spetta a noi realizzarlo e spesso non basta una vita intera per farlo. Di certo so che la libertà è la possibilità di pensare e vivere senza confini, ma con i limiti del rispetto, ma anche di una specie di “determinazione tollerante”. Con questo intendo dire che la tolleranza non può e non deve divenire passività, poiché questa non è che l’anticamera della sottomissione. Rifletti bene. L’istruzione ci fa conoscere il mondo e, dunque, capire che esistono diverse realtà, diverse prospettive e modi di affrontare il nostro viaggio terreno. Studiando noi ci apriamo al nuovo e all’ignoto che prima ci spaventava o che, comunque, non conoscevamo e offriamo una barriera formidabile a chi tenta di imporci delle “verità” o… una interpretazione del Corano. Questo cammino di conoscenza, però, deve arricchirci, non svuotarci della nostra personalità e della nostra identità individuale e storica. Solo così, infatti, quando vediamo un’ingiustizia possiamo lottare affinché venga corretta. Libertà e tolleranza, dunque, non sono accettazione pedissequa di tutto ciò che vediamo e che accade intorno a noi, ma consapevolezza che ciò che è giusto può migliorare e ciò che è sbagliato deve cambiare. Solo l’esperienza può suggerirci come agire e tu sai bene che non siamo infallibili. Percorrere la strada dell’emancipazione comporta continui aggiustamenti di rotta, ma deve essere chiaro che nessuno può toglierci l’indipendenza.
Quando parla di emancipazione il pensiero non può che portare alla situazione femminile nella sua e nella mia epoca. Potrebbe spiegarci in che modo le donne, ma anche gli uomini, possono lottare per vedere riconosciuti i diritti fondamentali? Su cosa ha basato la sua battaglia per l’emancipazione femminile? Crede che ci sia ancora molta strada da fare in tal senso?
Sì, c’è ancora tantissima strada da fare, ma gli ostacoli nascono per essere superati. Di certo la mia epoca è molto diversa dalla tua, problemi differenti per società diverse ma altrettanto complesse. Io ho fatto dell’emancipazione femminile la mia bandiera, la mia ragione di vita. Ho puntato tutto sull’accesso allo studio per le ragazze e le bambine, sul riconoscimento di uguali diritti e doveri politici e giuridici tra uomo e donna che consentissero il suffragio universale e la possibilità di frequentare scuole superiori e università e, dunque, diplomarsi e laurearsi sia in Egitto che all’estero. A tal proposito ritengo che il viaggio sia un altro modo per imparare e venire a contatto con persone che hanno stessi scopi ma, magari, strumenti diversi per realizzarsi, che meritano di essere conosciuti. Ai miei tempi ci si recava in Occidente, soprattutto in Francia e in Italia, per vedere un nuovo mondo, carpire i segreti dell’arte e della scienza e riportarli in patria, leggere e dialogare nella lingua “dell’altro” per scovare nuovi progetti da applicare anche da noi. Viaggiavano, però, solo gli uomini abbienti. Era necessario e lo è ancora adesso, che alle nozioni apprese dai libri si affianchino quelle imparate dal vivo e questo deve essere concesso anche alle donne, non importa il credo, la provenienza o il ceto sociale. Visitare l’Europa o l’America, apprenderne gli idiomi, portare se stessi e il proprio bagaglio di conoscenze non è certo un tradimento all’Islam! Di scambi culturali tra i nostri popoli ce ne sono stati per secoli. Pensiamo anche ai viaggiatori occidentali (e alle viaggiatrici) che hanno impresso l’orma dei loro ideali su entrambe le sponde del Mediterraneo. Lo studio e il viaggio e il buonsenso consentono ai giovani di tornare a casa con un futuro in mente da realizzare attraverso la concretizzazione dei diritti umani come la libertà di espressione e di pensiero. Questo vale per gli arabi, ma anche per voi occidentali.
Crede che le donne possano essere delle pioniere del cambiamento in nome della libertà e del dialogo tra Islam e Occidente?
Certo! Le donne musulmane potrebbero portare le loro validissime interpretazioni delle fonti islamiche, abbiamo delle eccellenti studiose, dare la loro visione dell’Islam, parlare delle origini e dello sviluppo del mondo arabo-islamico con la competenza, l’autorevolezza e l’indole incline al dialogo che possiedono, mentre le intraprendenti occidentali potrebbero proporre il loro percorso femminista verso l’emancipazione, la loro storia, anche religiosa. Sono sicura che questo connubio metterebbe in evidenza i punti su cui entrambe le parti devono ancora lavorare, ma anche i punti di forza. Sarebbe uno scambio interessantissimo e gli uomini, ovviamente, sarebbero ben accolti in questo dialogo, purché fermamente convinti di voler cambiare le cose e voler aiutare le donne a emanciparsi. Conosco molti tra loro che non hanno alcun desiderio di incatenare le loro mogli e le loro figlie, anzi, le sostengono con veemenza.
Le farò una domanda molto diretta: esiste, secondo lei, l’Islam moderato? Molti credono che, ormai, sia morto e sepolto, altri che non sia mai nemmeno nato. Qual è la sua posizione in merito?
E’ troppo facile bollare l’Occidente come corrotto o, allo stesso modo, ritenere il mondo musulmano formato solo da guerrafondai o da donne sottomesse. Diverse anime possono esistere, benché, spesso, convivere risulti più complicato, soprattutto quando ci sono differenze nette. Vi assicuro che le persone di buonsenso e di fede islamica esistono. Ovviamente non le sentirete urlare come fanno i provocatori, non sbatteranno i piedi in terra come se volessero marciare per il jihad e non vi mostreranno che la loro religione è la migliore di tutte, perché ciò non fa parte del loro modo di vivere. Parlo di persone quiete, silenziose per natura ma soprattutto per paura, che si alzano ogni giorno per vivere e non per immolarsi o distruggere altre vite. Credo, però, che sia giunto il momento, per loro, di prendere le distanze dall’estremismo in maniera inequivocabile, perché in gioco c’è anche l’identità araba e il suo glorioso passato. Non ha senso ed è terribile parlare di conquiste o di “infedeli” da convertire o uccidere. Tutti abbiamo qualcosa da dare e da ricevere. L’importante è che l’ipocrisia lasci spazio al libero pensiero e alla giustizia, l’ignoranza all’educazione, gli uomini alle donne e la morte alla vita.
Non ho che il tempo di voltarmi, distratta dal suono del mio modernissimo cellulare che interrompe l’immaginazione e l’intervista, tanto inopportuno quanto rumoroso. Lo spengo e mi giro di nuovo, sperando che quell’incontro non termini così presto. Il risveglio, invece, è amaro più del tè che sto bevendo da sola. Del resto vi avevo parlato di un’intervista impossibile, eppure ho davvero la sensazione che, se Hoda Sha’rawi fosse stata con me, mi avrebbe davvero detto quelle parole con espressione fiera, da combattente senza spada e incapace di ferire persino il peggior nemico.
Esco dal locale e mi ritrovo avvolta dall’aria fresca della sera. Nella mia mente ruotano vorticosamente le parole “libertà”, “tolleranza”, “determinazione”, “studio”, “emancipazione”.
Hoda ha parlato di una comprensione che non ammette passività, di una indipendenza che non conosce catene, di un pensiero impossibile da imbrigliare e che, pur nel rispetto, non rinuncia a esprimersi.
Era davvero una donna speciale Hoda Sha’rawi. Mentre cammino verso il mio albergo ho la sensazione che tutti noi, al di là della religione, dovremmo ripensare il nostro ruolo nel mondo; non possiamo aggredire e neppure essere aggrediti, dovremmo costruire e fortificare la nostra identità per non far sì che qualunque dialogo si trasformi nel monologo del più forte, rispettare e pretendere rispetto e avere la piena libertà per cui esistiamo, che non possiamo togliere e non può esserci tolta.
Saremo in grado di fare tutto questo nonostante la nostra imperfezione?
Francesca Rossi