Quando Nelson Mandela fu rimesso in libertà nel 1990, diventando il leader dell’ANC (African National Congress), io avevo nove anni. I miei ricordi di quel periodo sono molto confusi, eppure per me il nome di Nelson Mandela, allora come oggi, era sinonimo di libertà e pace ma anche di determinazione e coraggio. Termini che gli calzavano a pennello, come si può notare dalla sua biografia e dai numerosi libri pubblicati, i quali mettono in evidenza una personalità fuori dal comune. Barack Obama, nella prefazione di “Io, Nelson Mandela. Conversazioni con me stesso”, edito in Italia da Sperling & Kupfer, scrive che per tutti ci sono giorni in cui sembra che cambiare sia impossibile, giorni in cui le avversità e le nostre imperfezioni possono indurci a desiderare di imboccare un sentiero più facile, che eviti le nostre responsabilità verso gli altri.
Il primo presidente di colore degli Stati Uniti continua precisando che persino Mandela ha vissuto giorni come questi, tuttavia quando «un tenue raggio di sole penetrava in quella cella a Robben Island, lui riusciva a vedere un futuro migliore degno di quel sacrificio». Obama infine sostiene che questo grande uomo ha scelto di far vincere la speranza sulla paura e di guardare avanti oltre le prigioni del passato. Perché, mentre altri avrebbero scelto la vendetta, lui ha sognato e reso possibile la pace, lottando contro l’apartheid, la segregazione razziale istituita dal governo del Sudafrica, composto esclusivamente dalla minoranza bianca. Una chiara idea di cosa fosse l’apartheid ce la dà l’arringa del 20 aprile del 1964, quando Mandela, per difendere il suo operato e i suoi obiettivi, parlò ai suoi inquisitori che lo stavano processando a Pretoria per tradimento dello Stato della minoranza bianca e sabotaggio delle politiche d’apartheid. «La mancanza di dignità umana sperimentata dagli africani è un risultato diretto della politica di supremazia dei bianchi […]. I lavori umili in Sudafrica sono invariabilmente svolti dagli africani. Quando ha bisogno di trasportare e pulire qualcosa l’uomo bianco si guarda intorno per cercare un africano che lo faccia, indipendentemente dal fatto che l’africano sia o meno a suo servizio. Con questo atteggiamento i bianchi tendono a considerare gli africani una specie diversa. Non li considerano persone che hanno una famiglia, non si rendono conto che hanno emozioni e si innamorano […] che vogliono guadagnare in modo adeguato per mantenere in modo adeguato le loro famiglie, nutrirle e vestirle e mandarle a scuola. […] Le leggi sui passaporti interni […] rendono ogni africano soggetto a controllo di polizia in qualsiasi momento […]. Gli africani vogliono la loro giusta parte di tutto il Sudafrica; vogliono la sicurezza e un ruolo nella società. Soprattutto vogliono pari diritti politici, perché senza di essi i nostri handicap saranno permanenti […]».
Poco dopo Mandela ebbe l’ergastolo, trascorrendo ventisei lunghi anni in una cella, il luogo ideale – scrisse – per imparare a conoscersi, per esplorare i propri processi mentali ed emotivi, in quanto, secondo lui, i fattori interni sono ancora più cruciali per stimare il nostro sviluppo come esseri umani. Per Mandela, onestà, sincerità, semplicità, umiltà, disponibilità nell’aiutare gli altri e tanti altri valori positivi sono il fondamento della vita spirituale. Dopotutto, sosteneva, un Santo è un peccatore che non smette mai di provare a migliorarsi.
Il 2 febbraio del 1990, quando fu ufficialmente dichiarata la fine dell’interdizione dell’Anc, Mandela venne liberato. Quattro anni dopo divenne il primo presidente di un Sudafrica democratico. Nel 1993 ricevette il Premio Nobel per la Pace. Emozionante e illuminante è il discorso del 2 maggio del 1994: «[…] Al popolo del Sudafrica e al mondo che ci sta guardando desidero dire: questa è una notte di gioia per lo spirito umano. […] E` arrivato il momento di festeggiare, i sudafricani si uniscano insieme per celebrare la nascita della democrazia […]”. Mandela pronuncerà più volte la parola “insieme” che, con il termine fratellanza ritroviamo anche nell’autobiografia “Lungo il cammino verso la libertà”, cominciata a scrivere in carcere. La storia di Madiba ebbe inizio il 18 luglio del 1918 a Mvezo. Il suo vero nome era Rolihlahla, ma fu la maestra elementare a chiamarlo Nelson. Dopo la Laurea in giurisprudenza, egli cominciò a battersi per la libertà del suo popolo andando più volte in carcere. Perché “nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma siamo nati per essere fratelli”. Riposa in pace piccolo grande uomo.
Maria Ianniciello