La speranza per Rayhaneh Jabbari si è spenta pochi giorni fa, ma il dolore e le recriminazioni devono spronarci a credere che esista ancora la possibilità di cambiare, di migliorare la condizione della donna nel mondo, di salvare quanti stanno per salire sul patibolo per colpe mai commesse, o in seguito ad accuse ingiuste e processi sommari.
Dobbiamo di nuovo confrontarci a viso aperto contro una realtà dura e letale, perché un’altra donna rischia la morte e, purtroppo, anche per lei le speranze si stanno assottigliando.
La pakistana Asia Bibi, cristiana di 48 anni e madre di cinque figli, è stata accusata di blasfemia, reato per cui, in Pakistan, è prevista la pena capitale e l’Alta Corte di Lahore ha da poco respinto il ricorso contro la sentenza, pronunciata l’8 novembre 2010.
Asia, stando al racconto degli accusatori, avrebbe insultato il Profeta Maometto durante una lite tra donne. Secondo la presunta ricostruzione dei fatti il 19 giugno 2009, in una azienda agricola in cui lavoravano sia Asia che le sue accusatrici, sarebbe scoppiata una lite per motivi religiosi; le due donne musulmane si sarebbero rifiutate di bere l’acqua dal bicchiere in cui la Bibi si era dissetata per prima, non potendo accettare di “mescolarsi” con una persona di fede diversa.
Da lì il diverbio sempre più acceso, durante il quale l’accusata avrebbe dichiarato che Gesù è il vero Profeta di Dio e non Maometto. La denuncia all’imam non si è fatta attendere e neppure la prigione. Asia Bibi, infatti, è reclusa dal 2009 e, benché il suo avvocato Shakir Chaudry sia riuscito a dimostrare la totale infondatezza delle accuse, a quanto pare costruite ad arte con la complicità dei testimoni e basate su pettegolezzi, il giudice ha creduto alle parole delle due sorelle che hanno coinvolto Asia in questo inferno.
Per lei si è mobilitato persino il Papa, come era già successo per Rayhaneh, mentre Articolo 21 ha indetto una petizione che è arrivata a più di 685.000 firme. Il caso Bibi sta letteralmente spaccando in due il Pakistan: da una parte gli estremisti islamici, i quali considerano giusta la sentenza, dall’altra i moderati che chiedono una revisione o l’abolizione della legge sulla blasfemia.
In effetti ottenere dei cambiamenti o la totale abrogazione di questa norma è, oltre che quasi impossibile, anche pericoloso; nel 2011 il governatore del Punjab Salman Taseer e il ministro per le minoranze Shahbaz Bhatti sono stati assassinati per aver difeso Asia Bibi e essersi dichiarati contrari alla legge sulla blasfemia. La donna, secondo Amnesty International, ha dovuto sopportare l’isolamento per quasi tutta la durata della sua prigionia, in apparenza per tutelare la sua incolumità.
La stessa fonte sostiene anche che un famoso religioso musulmano avrebbe perfino offerto soldi a chiunque l’avesse uccisa. Non solo: molti hanno giurato di eliminare una volta per tutte Asia Bibi, qualora sopravvivesse al carcere e la pena fosse annullata. Ciò è gravissimo, anche perché in Pakistan, finora, nessuno è mai andato a morte per blasfemia dal 1980, ovvero da quando la suddetta legge è entrata in vigore. Ci sono stati, però, casi in cui gli stessi estremisti hanno deciso di “giustiziare” sia dentro che fuori dal carcere, gli accusati, cristiani o musulmani, di tale reato.
Asia Bibi ha paura e teme che, per lei, non ci sia più via d’uscita, nemmeno una flebile speranza a cui aggrapparsi.
Non possiamo permettere che accada di nuovo quanto già successo a Rayhaneh e ad altri, uomini e donne. E’ il momento di dimostrare che diverse religioni possono convivere in pace, ma bisogna sbrigarsi, perché il tempo sta scadendo.
Francesca Rossi