Da sempre il femminismo islamico sostiene che l’avvento dell’Islam abbia modificato, in meglio, la condizione della donna. Tale affermazione è provata, attraverso il diritto musulmano e la Storia, da inequivocabili cambiamenti come, per esempio, la possibilità per la donna di ereditare e la possibilità che la dote nuziale appartenga solo alla donna, non ai membri maschi della famiglia.
Tutto questo era impensabile durante la Jahiliyya, ovvero l’età preislamica (letteralmente il termine significa “ignoranza”, ovvero la mancata conoscenza del messaggio divino dato da Allah a Maometto attraverso l’Arcangelo Gabriele), quando non esisteva neppure il concetto di individuo, ma uomini e donne erano parti pressoché inscindibili di un “tutto”, cioè la tribù. Questo non significa, però, che la condizione della donna musulmana non presenti grandi problemi tutti da risolvere. Li vediamo, così come, in molti casi, osserviamo il divario tra diritto e consuetudine per ciò che concerne questa condizione. Le femministe musulmane, ben consapevoli della strada tutta in salita da dover percorrere, ritengono che sia necessaria un’interpretazione del Corano priva di qualunque tipo di manipolazione, come invece è già accaduto e che non sia appannaggio di una ristretta cerchia elitaria di uomini. Troppe volte le donne sono state escluse dall’esegesi e il loro ruolo nella Storia occultato e, anche per questo, rimasto in balìa dei preconcetti.
Il Libro sacro, dunque, va letto alla luce dei nuovi tempi e dei progressi fatti; spetta a uomini e donne illuminate “risvegliare” le parole in esso contenute e fare in modo che accompagnino il fedele nella vita di oggi, nel Duemila. Anche per questo motivo molte dotte musulmane ritengono che non ci sia bisogno di copiare modelli e terminologia del femminismo occidentale, benché sia auspicabile il dialogo con le rappresentanti di tutto il mondo.
Nei discorsi delle femministe europee o americane a proposito dello stile di vita delle musulmane, il velo islamico ricopre, è proprio il caso di dirlo, un ruolo predominante. Per le femministe islamiche, invece, non è che una parte, seppur importante, nel contesto dell’emancipazione della donna. Per moltissime tra loro, infatti, il velo dovrebbe rappresentare una scelta personale; se, ancora una volta, sono gli uomini a decidere che mogli e figlie debbano indossarlo in nome della fede, oppure non indossarlo in nome della modernità, il risultato non cambia: si tratta, comunque, di una imposizione proveniente dagli uomini.
Il velo, dunque, non esclude la libertà e l’emancipazione, almeno finché non diventa un obbligo svilente, che annichilisce e alla cui ribellione seguono pene durissime. Allo stesso modo alcune femministe non comprendono per quale motivo una minigonna sia necessariamente un simbolo di libertà e si chiedono se, invece, l’emancipazione non stia in qualcosa di meno apparente e, comunque, mai imposto.
Proprio il problema delle imposizioni più o meno subdole e più o meno “velate” tocca anche le donne occidentali: il dibattito sull’uso (e abuso talvolta) della chirurgia estetica per essere accettate e, addirittura per poter lavorare in alcuni ambiti dello spettacolo, non si è mai chiuso. Le donne occidentali sono davvero libere nel senso più vero e profondo del termine? Certo, bisogna fare le dovute distinzioni; nel mondo islamico non indossare il velo può costare caro; è inutile sottolineare l’evidente differenza tra i due soggetti, velo e chirurgia estetica, nel modo in cui sono percepiti e vissuti ed è ovvio che le donne occidentali abbiano libertà che altre non hanno. Però il velo e la chirurgia hanno due cose in comune: riguardano quasi esclusivamente le donne (anche gli uomini, ormai, ricorrono ai “ritocchi”, ma su di loro non vi è la stessa pressione sociale) e, in secondo luogo, si portano dietro un sacco di pregiudizi su come la donna dovrebbe essere per farsi “accettare” al di là del suo valore.
Chirurgia e velo dovrebbero essere sempre libere scelte e non condizioni senza le quali non è possibile avere un ruolo nella società, oppure si rischia di essere giudicate. Bisognerebbe evitare l’omologazione nei confronti delle donne, spesso frutto di società patriarcali. L’emancipazione è qualcosa di ben più profondo, contrario alle mode passeggere e ha molto a che fare con la personalità. L’abito, il velo o il bisturi non possono rendere una persona “catalogabile” come “seria” o meno, buona credente o meno, bella o brutta, oppure “bacchettona” o ribelle (perché magari rifiuta di “correggere i difetti” o indossare il velo). Anche stavolta, dunque, serve buonsenso, oblio degli stereotipi e la vera libertà di scegliere che non può essere imposta neppure dai canoni della società.
Francesca Rossi