Andy Warhol a Roma, la recensione della mostra

ingressowarhol Chi di noi non ha mai visto un’opera di Andy Warhol nella vita? Pochi, forse nessuno; alcune immagini di Warhol hanno accompagnato i nostri anni attraverso i poster, i gadget, gli sfondi dei nostri computer e mille altri modi di veicolare i suoi dipinti e le sue creazioni, rendendo giustizia al pensiero di fondo dell’artista di Pittsburgh – Pennsylvania (USA), che era quello di rendere le celebrità e l’arte stessa popolari, accessibili a tutti, farle diventare icone alla portata di ogni ceto sociale. «Sono una persona profondamente superficiale», amava dire di sé, nel suo stile disincantato, originale e provocatorio. Lo straccione, lo chiamavano, per il suo aspetto trasandato. Per lui, tutto poteva e doveva essere di tutti e questo concetto lo esprimeva anche attraverso le sue creazioni. I ritratti delle celebrità dell’epoca, per esempio, arricchite di colori sgargianti che tanta tendenza fecero negli anni Sessanta e Settanta, celeberrimi quelli di Marilyn Monroe, Liz Taylor, Mao Tse Tung. Bene, ora nella capitale c’è la possibilità di vedere da vicino ben 160 opere del Re della Pop Art, in una bellissima mostra promossa da Fondazione Roma, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico per il Polo Museale della città di Roma, Comune di Milano e Palazzo Reale. Tutte le opere, caratteristica insolita, provengono da un’unica collezione, quella di Peter Brant, che divenne anche amico di Warhol. La collaborazione preziosa di un critico d’arte come Francesco Bonami ha costituito la ciliegina sulla torta. Palazzo Cipolla, in via del Corso, ospita la Mostra che è senz’altro ben concepita per far comprendere al pubblico come nascono la celebrità di Warhol e lo sviluppo della sua parabola artistica. Andy WarholLe opere famose come “Silver Coke bottle” rendono chiaro il suo aforisma: «Una Coca è una Coca. Nessuna somma di denaro potrà mai darti una Coca migliore». La sua visione della democrazia americana, in base alla quale il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero, è il preludio a tutta la notissima serie delle zuppe Campbell, in tutte le salse ci verrebbe da dire guardandole. Oggetti di uso comune: una semplice lattina di zuppa diviene un simbolo dell’arte di Warhol o meglio ancora diventa l’espressione visiva della sua negazione della contemplazione dell’arte, e del ruolo stesso dell’artista che con lui non è più demiurgo ma comunicatore. Semplice, come la sua profonda superficialità: «Sono convinto di rappresentare gli USA con la mia arte, ma non sono un critico sociale. Dipingo questi oggetti perché sono le cose che meglio conosco!». Semplicità, leggerezza, in tutta la mostra balzano agli occhi negli splendidi colori, anche divertendo, come il caso di “Schema di danza”, il grande quadro in bianco e nero rappresentante due grandi sagome di scarpe, in cui tutto è molto chiaro, essenziale. Come spiega Bonami: «La genialità nasce dall’ingenuità, dal porsi davanti al mondo come bambini, come esploratori». E lo spirito impertinente, fanciullesco, lo troviamo nell’opera “Super ricercati”, una gigantesca foto segnaletica di un criminale, ingrandita fino a rivelarne i pixel. E’ solo uno dei 13 pannelli con cui avrebbe dovuto decorare il Padiglione dello Stato di New York alla NY Works Affaires, che scatenò polemiche di diverso genere. Lui, seraficamente, propose di sostituire le foto dei 13 criminali con quelle del direttore della manifestazione. Logicamente, non se ne fece nulla. Non mancano i bellissimi quadri con Elvis Presley, del 1962 “Elvis rosso”. La foto, il punto di partenza, poi la serigrafia tanto utilizzata da Warhol, riproducendo quasi all’infinito il volto del cantante, con splendido effetto ottico. Perché tante volte la ripetizione di un soggetto? Andy avrebbe risposto: «Non è forse la vita una serie di immagini che cambiano sempre eppure sempre si ripetono?». Il tema della ripetizione si ripropone in un’altra sua famosissima opera “Trenta sono meglio di una”, con trenta immagini della Monnalisa, cuore pulsante della sua visione che nega e polemizza con l’immagine dell’artista contemplativo. warholAccessibilità opposta all’esclusività. Un concetto che qualcuno accosta ai ritratti di Mao, innumerevoli nella sua vita (2000 pezzi solo nel 1972), ma che era un personaggio molto distante da lui. C’è, più che altro, l’idea di uguaglianza, che con Andy diventa inoffensivo sfondo decorativo. Innegabile che il quadro esposto, che riscuote più curiosità, sia quello di Marilyn o meglio della “Marilyn azzurra sparata” (Blue Marilyn shot), con quella leggera macchia bianca al centro della fronte che è frutto del restauro di un foro di proiettile sparato da una sua amica nel 1964. Tante altre opere sono in allestimento, come l’inquietante “12 sedie elettriche”, un simbolo di morte che nella sua dimensione estetica diventa quasi un moderno crocifisso. Spesso la morte tornerà nelle sue riflessioni e nelle sue opere (egli stesso fu vittima di un attentato nel 1968), che possiamo ammirare nel celebre “Skull”, in cui i colori quasi allontanano la morte o nella riproduzione di incidenti d’auto. Tante altre piccole e grandi sorprese sono esposte, come il piccolo quadro “Be a somebody with a body” (1985/86), un ironico inno ai corpi di plastica, o come la grande tela “Simbolo del dollaro”, anch’esso dell’ultimo periodo, divertente suggello al suo concetto di artista che non necessariamente deve morire di fame: «Ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista d’affari». Altre opere, una sorprendente schiera di “Fiori”, un bel ritratto di Jean Michel Basquiat, suo amico e punta di diamante della nuova generazione anni 80 di pittori e graffitari che tanto affascinavano Warhol, accompagnano verso le ultime opere prima della morte (per una banale operazione chirurgica), negli anni in cui non era più considerato un grande come nel precedente ventennio. Tra le altre cose, una serie di polaroid, mai viste prima in Europa, di grandi personaggi e di bizzarri autoscatti. Nell’ultima sala, la grande tela in bianco e nero della sua “Ultima cena”, ennesimo omaggio al genio di Leonardo (ultima mostra prima della scomparsa) ma sempre inteso come icona commerciale, tanto che il modello fu una banale riproduzione di plastica, e il suo autoritratto forse più famoso, il grande “Ritratto rosso su nero” del 1986. Una mostra ricca, bella, che ha il pregio di svelare anche il Warhol uomo, i suoi pensieri. Fino al 28 settembre. Da non perdere. A corollario un’esposizione fotografica di Terry O’Neil, con tanti scatti ai divi di Hollywood e dello star-system americano e inglese.

Paolo Leone

 

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