Recensione della mostra su Escher – Roma, Chiostro del Bramante fino al 22 febbraio 2015
Dai paesaggi ai giochi visivi; dalla geometria alla fantasia; dall’indagine alla sperimentazione; dalla realtà al riflesso di un mondo fantastico e con una logica che si mescola al sogno, trae spunto dall’improbabile e appare impossibile. ESCHER – semplicemente – il titolo dell’antologica allestita a Roma al Chiostro del Bramante dal 19 settembre scorso fino al 22 febbraio prossimo, curata da Marco Bussagli, in collaborazione con la Fondazione Escher e con la Collezione Federico Giudiceandrea (che ha ceduto in prestito molti dei pezzi esposti). La mostra romana raccoglie sommariamente circa 150 opere tra progetti, disegni, dipinti, incisioni, installazioni e motivi grafici ricorsivi che accompagnano l’opera di Maurits Cornelis Escher (Leeuwarden 1898 – Laren 1972) sin dai primi lavori, e che tornano predominanti dopo il suo lungo e affascinante viaggio tra l’Italia e la Spagna, tra gli anni Venti e gli anni Trenta.
Sì, perché l’esposizione mette in evidenza quanto la ricerca dell’artista olandese abbia, al di là di quel che si possa immaginare, un trama filologica che trova nel paesaggio italiano naturale e urbano – fatto di luci inedite, di mare, di strutture rigidamente complesse e meravigliosamente incastonate – e, in seguito, nei monumenti moreschi tra Cordova e l’Alhambra di Granada, quella struttura geometricamente multiforme che sarà la linfa indispensabile per una produzione artistica articolata e poliedrica.
Dall’osservazione delle piccole meraviglie della natura, ai paesaggi arroccati che l’artista sente il bisogno di ritrarre, sino ai motivi arabeschi che lo inducono a ricercare nella figura decorativa forme di vita semplici e universalmente riconoscibili, la mostra è intrisa di un’opera che valica le dinamiche convenzionali dell’arte. Dinamiche che confluiscono nel concetto della simmetria degli oggetti e trovano la loro matrice nello studio della matematica, quale attività creativa per eccellenza, e nell’analisi della cristallografia quale punto di partenza per fantasie intellettuali e giochi paradossali.
Soffioni, cavallette, scarabei, poliedri, cristalli, pesci che s’incrociano con volatili, fazzoletti di terra che diventano uccelli, animali primordiali che abitano un Planetoide doppio o attraversano un nastro di Möbius. Uomini che percorrono salite e discese di scale, in una fisarmonica di linee che parte dal piano e invade lo spazio con tassellazioni a volte semplici e altre volte intricatissime ma riservate ad un fruitore consapevole nel farsi trascinare sullo scacco perpetuo di una scena impraticabile. La mostra riserva anche alcuni dei lavori più noti al grande pubblico come Mani che disegnano o l’affascinante Mano con sfera riflettente: una magistrale litografia del 1935 in cui l’artista si ritrae riflesso e con una prospettiva curvilinea che rifrange il suo studio.
E, definirlo un artista, sembra quasi non rendergli giustizia. Poiché la sua investigazione d’infinito attraversa la metamorfosi della forma e ci apre lo sguardo su un intellettuale che esplora l’insondabilità della realtà e il suo mistero. Escher – del quale purtroppo troviamo pochissimi riferimenti nei manuali di Storia dell’Arte proprio per via della sua difficile catalogazione in qualsivoglia corrente o movimento – è un raccordo simbolico tra arte e scienza in una rete fittissima di ombre e luci, di vuoti e pieni, di positivi e negativi che delineano la perfezione geometrica di un universo apparentemente caotico, ma frutto di studi scientifici che, a loro volta, saranno fonte d’indagine per matematici e fisici.
E la mostra ci permette altresì di entrare nel suo cosmo fantastico attraverso pannelli didattici che ci ripropongono illusioni ottiche, e sperimentazioni percettive, consentendo ai fruitori di comprendere le leggi della Gestalt ed interagire con la psicologia della forma. Inoltre consente di cogliere le intuizioni di un artista che sintetizza in sé l’eredità della pittura fiamminga, la fantasia sbrigliata di Hieronymus Bosch, i suoi passi all’epoca del Cubismo, dell’Art Nouveau e del Futurismo, mentre i lavori ci illustrano un precursore di altri movimenti immediatamente consequenziali ai suoi progetti come il Surrealismo, o cronologicamente più lontani, come la Optical Art degli anni Sessanta. A tal proposito risulta interessante evidenziare alcuni degli attinenti parallelismi che ci permettono di notare come altri artisti siano rimasti affascinati dalle illusioni ottiche e dalla sperimentazione visiva. È il caso del ready-made Apolinère enameled di Marcel Duchamp che “dialoga” con la sua versione in tre dimensioni Duchamp dis-enameled di Luca Maria Patella o dei riferimenti a Giacomo Balla e agli spazi prospettici di Giorgio De Chirico.
Nel nostro viaggio, fatto di una moltitudine di esperienze visive ed emozionali, la mostra si conclude idealmente con una delle sale più stimolanti sotto il profilo sperimentale: la Stanza degli specchi. Un’appassionante esperienza percettiva nella quale il concetto della profondità è reso tridimensionale attraverso una superficie riflettente che accoglie il punto di vista dello spettatore e ne propaga il corpo, in una incantevole sensazione d’infinito che fa percepire la presenza di una dimensione altra, recante un’illusione di eternità. Un’illusione, appunto, costretta a svanire appena varcata la soglia dell’uscita di una mostra imperdibile.
Livia Paola Di Chiara
La mostra è aperta tutti i giorni dalle 10 alle 20 e il sabato e la domenica dalle 10 alle 21
Costo del biglietto intero 13 euro
Per info: (+39) 06 916 508 451