Goshka Macuga, classe 1967, curatrice (termine riduttivo) de “Goshka Macuga: To the son of a man who ate the stroll” (Al figlio dell’uomo che ha mangiato il rotolo) a Milano negli spazi della Fondazione Prada fino al prossimo 19 giugno 2016, è nata a Varsavia ma risiede da anni a Londra. Viene definita “archeologa culturale” visto che per comporre le sue installazioni filtra ruoli diversi come artista, curatore e collezionista concentrandoli in un’unica figura ibrida, inconsueta, efficace, per generare un messaggio artistico potente. A Milano è stata chiamata appunto dalla Fondazione Prada per una mostra attraverso la quale vengono esplorati concetti come tempo, origine, collasso, fine e rinascita, e lo fa allestendo tre diversi spazi (il Podium, la Cisterna e lo Studiolo) in un racconto esplicito che rappresenta un flusso di coscienza tanto personale quanto collettiva, di una umanità – intesa come unicum che attraversa lo spazio e il tempo – che ha lasciato e lascerà il segno grazie al pensiero e alla creatività. Ero perplesso inizialmente per questa scelta di dividere una mostra tra spazi lontani e decisamente diversi tra loro. Temevo che l’atto fisico dello spostarsi in qualche modo interrompesse la concentrazione necessaria a seguire il senso della mostra stessa. Mi sbagliavo. Anzi, di più: spostarsi da un allestimento all’altro è necessario per interiorizzare i contenuti di una sala e prepararsi a una nuova esperienza nella seguente. Per quel che mi riguarda ho cominciato la visita dal piano terreno del Podium, in cui sono esposte opere di diversi artisti come Phyllida Barlow, Fontana o Giacometti che indagano il concetto di cosmo.
Al centro dello spazio espositivo un androide, ideato da Goshka Macuga, che recita in loop un lungo monologo nel quale sono collegati con un filo logico frammenti di diversi pensatori di tutte le epoche (in ordine sparso: Freud, Arendt, Einstein, Platone, Mary Shelley, Martin Luther King, Sant’Agostino e altri). L’idea è che soltanto l’uomo, o meglio l’uomo perfetto, il man-made-man (creato dall’uomo a sua immagine e capace di sconfiggere il tempo) è in grado di essere contemporaneamente l’ambasciatore e il destinatario del messaggio che distilla quanto di meglio la mente umana ha prodotto per cercare di risolvere il mistero della vita. Tuttavia questo androide acquista un senso maggiore se lo si considera per l’appunto circondato da opere con funzione di satelliti artistici: ognuno ha una sua autonomia, ma è solo la visione di insieme che può far capire il disegno generale. L’impressione che ne ho ricavato è davvero intensa, la sensazione che la propria coscienza e senso critico siano parte attiva della mostra è una sensazione che rende vivo il percorso. Una sensazione sulla quale riflettevo mentre salivo le scale e che si è amplificata al primo piano del Podium, dove si trova l’installazione “Before the beginning and after the end” (Prima del principio e dopo la fine). Qui il concetto di stroll, “rotolo” (ripreso proprio dal titolo “To the son of a man who ate the stroll”) come depositario del sapere umano acquista una forma fisica: su cinque tavoli altrettanti “rotoli” di carta lunghi 9,5 metri sono ricoperti da disegni, formule, giochi e diagrammi tracciati da un robot (in funzione su un sesto ed ultimo tavolo della sala).
Goshka Macuga artista e curatore pone su ognuno di questi, a completare o negare il segno su carta, diverse opere di altri artisti provenienti dalla collezione Prada (o da musei diversi) come Darboven, Manzoni e Roth, alternandoli con reperti di arte antica e oggetti di uso comune. Ogni testimonianza, disegnata o fisica, può o non può avere un senso nello specifico luogo in cui è posizionata (e sono io come visitatore a dare o negare senso a questa collocazione). L’effetto, affascinante, è che ogni singola coscienza avrà una visione personale della mostra in base alla sua interpretazione non soltanto delle opere ma anche dell’interazione tra queste. Fare arte grazie all’arte è un concetto dirompente, e lo diventa ancor di più quando hai la percezione di essere parte integrante del processo creativo. Le ultime due sale sono invece monotematiche. Nella Cisterna, una installazione che ho trovato in qualche modo più sociale e “politica”, composta da 73 teste di bronzo che rappresentano 61 figure storiche o contemporanee collegate tra loro da barre di rame. Il gioco di collegamenti e rimandi, come raggi o come pensieri, diventa la rappresentazione tridimensionale della complessità del pensiero umano in un’opera che ricorda una struttura molecolare. È inevitabile tornare con la mente al concetto di “nessun uomo è un’isola” di John Donne e alla proposta di Albert Einstein che teorizzava una leadership intellettuale come alternativa utopica ai diversi modelli politici che la Storia ha visto susseguirsi. Ma è nello Studiolo che il manifesto ipotizzato da Goshka Macuga acquista una prospettiva. Qui le opere scelte sono semplici testimoni di letture pubbliche (ogni sabato e domenica alle 17 fino al 24 aprile) di testi in esperanto, lingua morta e artificiale. È la consapevolezza che avvengano queste performance, anche se – come nel mio caso – è solo un’eco evocata dall’immaginazione, che mi ha permesso di relativizzare la mia posizione di testimone e confermato l’altissimo valore di una mostra come “To the son of a man who ate the stroll”. L’arte è un linguaggio. Il linguaggio veicola il messaggio. Il messaggio coincide con il senso stesso del concetto, indipendentemente da chi comunica e da chi ascolta.
*Immagine 2 – In primo piano: Phyllida Barlow Untitled, hanginglumpcoalblack, 2012, polistirene, rete metallica, poliuretano espanso, cemento, sabbia, pittura, PVA – Sullo sfondo da sinistra a destra: Goshka Macuga “Negotiation sites” after Saburo Murakami, 2016, Tessuto James Lee Byars , The Golden Sphere, 1992, Bronzo dorato Alberto Giacometti, Cubo, 1934, Bronzo, Thomas Heatherwick, Extrusion, 2009 – Estrusione di alluminio, Lucio Fontana, Concetto spaziale. Natura, 1982, Bronzo, Eliseo Mattiacci, Colpo di gong, 1993, Ferro, ottone, Goshka Macuga, To the Son of Man Who Ate the Scroll, 2016, Androide, trench di plastica, scarpe fatte a mano (scarpa 1: schiuma espansa; scarpa 2: cartone, lino).