Cos’è il jazz? L’occasione per chiederselo è la ventunesima edizione del Pomigliano Jazz in Campania che, puntualmente, anche quest’anno porta musica di qualità ed eventi itinerante fino al 24 settembre all’ombra del Vesuvio. Forse un modo per definirlo è raccontarne il viaggio. Perché ne ha fatta di strada dalle piantagioni della Louisiana a Pomigliano questa musica. Nasce come sfogo, come improvvisazione vocale, non ha un nome e il nome glielo trovano storpiando il francese jasier, fare rumore, oppure l’inglese jism, energia (storpiato poi in jizz) ma in entrambi i casi esiste un doppio senso che è sconcio. Molto, davvero molto sconcio. Se si dice “jazz” un cantante penserà allo scat di Ella o Sarah, un musicista alla tromba di Satchmo, un ballerino alle isolazioni di Fosse, ma che importa. Tutte queste cose non sono altro che facce di una stessa medaglia. Una medaglia che ha acquisito valore scambio dopo scambio, contaminandosi con stili, gusti e luoghi diversi. Swing, bebop, blues, spirituals, ragtime: tutto va bene, è un calderone generoso il jazz, si arricchisce di novità continuamente, non è mai uguale a se stesso. Sonny Rollins ha detto “Il jazz è quel tipo di musica che può assorbire molte cose ma poi rimanere pur sempre jazz”. Hard, cool, fusion, sono mille i rivoli entro cui ha saputo muoversi, senza disperdere mai la potenza del suo messaggio. Ogni sera una improvvisazione diversa. Uno stupore che non finisce. Cos’è il jazz? Il jazz è libertà. Era la libertà sognata da chi raccoglieva cotone e sognava cieli africani che forse non aveva mai neanche visto. Era la libertà da rigide costruzioni codificate per chi, suonandolo, veniva da una formazione musicale classica. Era la libertà per una generazione sopravvissuta alla Grande Guerra, che aveva spento un’Era e ucciso la fiducia nel domani. Era la libertà, sulla pista da ballo, dove si poteva muovere il corpo senza paura di offendere i benpensanti. È liberta – per definizione – in una jam session, quando un musicista inventa, nota dopo nota, qualcosa di effimero e bello.
Ecco: una grande kermesse come ad esempio il Pomigliano Jazz in Campania non è solo un’occasione per sentire musica. Buona musica. È una celebrazione di questa libertà. Ne ha fatta di strada quella musica partendo dalle piantagioni della Louisiana. Quando le voci si fondevano in melodie non scritte, in cui confluivano echi diversi. Canti africani, ritmi cadenzati per aiutarsi nel lavoro, bisogno di esprimersi artisticamente, umanamente e creativamente. Pian piano si aggiunsero percussioni improvvisate, divenne musica per far festa, si aggiunsero strumenti musicali come il banjo o la tromba e infine il piano. Si delineò una struttura, si ritrovarono stilemi. Da musica per afroamericani ancora senza diritti divenne musica per elite. Le bigband contribuirono a sdoganarla come musica da ballo. Gershwin la portò nei più grandi teatri del mondo mentre parallelamente si continuava a suonare jazz per le strade, nei pub. In piccole sale di provincia e nelle case dei musicisti solo per il piacere di fare musica.
Oggi si può persino definirlo il jazz. Parlare, in maniera colta, di 12 battute o di 32 battute, o anche di come si può, all’occorrenza, improvvisare. Ma definire non è spiegare. Cos’è il jazz? Il jazz è Storia, perché seguire la storia del jazz equivale, per buona parte, a raccontare la storia dei neri d’America, dalla fine della schiavitù ai grandi flussi migratori verso le città del nord. L’Harlem Renaissance, il Cotton Club, la Buffalo Division. Quando si ascolta del buon jazz tutte queste immagini, storie, riferimenti forse tornano in mente e forse no. Ma non importa. Perché come diceva l’indimenticabile Louis Armstrong “Se devi chiederti cos’è, non saprai mai cos’è il jazz”. E questa è forse l’unica conclusione a cui si può arrivare quando si tenta di raccontare il jazz. Che il jazz non lo si ascolta, mai, solo con le orecchie, e che quando lo ascolti una volta, poi, lo riconosci. Di seguito un’intervista realizzata al Jeff Ballard Trio che si sono esibiti al Pomigliano Jazz Festival.