Dopo la rassegna sull’arte contemporanea iraniana, a Roma il MAXXI dedica una mostra alla realtà intellettuale turca, in particolare a Istanbul, città che sta vivendo un periodo di crescita e rinnovamento urbano senza precedenti. A tale sviluppo economico, artistico e urbanistico si aggiunge però anche l’aumento degli scontri politici e dei conflitti che a poca distanza dalla città minacciano la pace mondiale, posizionando Istanbul, che da sempre rappresenta il punto d’incontro tra Oriente ed Occidente, in un ruolo di mediazione tra istanze e interessi differenti. Tale fermento ha reso la vita artistica della capitale traboccante appunto di passione, gioia e furore, innescando – al contempo – un rapido processo di gentrificazione. Le contraddizioni insite in questa città, divisa fra tradizione e innovazione, globalizzazione e fenomeni locali ne fanno un luogo emblematico di come il mondo stia cambiando. Da questa idea è nata la mostra, in cui quaranta tra artisti e architetti sono stati chiamati a rappresentare la dinamica realtà delle creazioni urbane contemporanee al fine di osservare come stia avvenendo tale mutamento mondiale.
La mostra si sviluppa in sei capitoli. Il primo proposto al visitatore è “A Rose Garden?” prendendo spunto da un fatto di cronaca avvenuto nel 2013: migliaia di cittadini occuparono il Gezi Park, per impedirne la demolizione, e la dura repressione della polizia innescò manifestazioni in tutto il territorio turco in cui i cittadini esprimevano il proprio dissenso alla politica interna del governo, tesa a controllare la popolazione sotto ogni ambito vitale; l’esercito interruppe con la forza il movimento di protesta, senza tuttavia riuscire a bloccare la diffusione di più ampie riflessioni e di dibattiti in merito. “Ready for a Change?” illustra invece la profonda tensione urbanistica che intercorre tra l’edilizia irregolare sviluppatasi a seguito delle migrazioni dalle campagne verso la città dagli anni sessanta in poi e quella promossa da TOKI (Toplu Konut Idaresi – Housing Developent Administration). Tale incontrollata attività di costruzione ha avuto ed ha a tutt’oggi un forte impatto sulla vita della popolazione, tanto da far scaturire un movimento di resistenza alle politiche statali. Proprio per questo all’interno della sezione è presentata la ricerca da parte degli architetti di soluzioni urbanistiche alternative e sostenibili in grado di conciliare tali spinte divergenti. La terza parte è intitolata “Can We Fight Back?”. Questo perché in seguito agli scontri di Gezi Park gli spazi pubblici e privati ospitano le tracce della trasformazione e della protesta in atto.
Nonostante le numerose istanze socioculturali che percorrono e – in un certo qual senso – dividono la città, vi è negli abitanti un sentimento di appartenenza strettamente legato ad una nuova consapevolezza di libertà e alla difesa di questo diritto fondamentale. Gli intellettuali non fanno che esprimere, dar forma a questa passione comune in ogni angolo della capitale turca. Emblematica a tal proposito è l’installazione “Two Rainbows” di Sarkis: caratterizzata dalla figura dell’arcobaleno alle cui spalle è stata posta una serie di immagini della ormai distrutta scala colorata di Istanbul, simbolo di opposizione all’oppressione e impronta urbana della presa di coscienza di un intero popolo. “Should We Work Hard?” affronta più da vicino la tematica del lavoro. Un lavoro senza sosta e molto, troppo spesso sfruttato che accomuna sia la popolazione impiegata nell’industria, sia quella altamente specializzata che svolge la sua attività nelle zone centrali. Si osserva in questa sezione della mostra come gli artisti e gli architetti abbiano fatto proprie queste tematiche e sviluppato delle riflessioni sul lavoro e sulla relazione che la popolazione turca ha attualmente con esso, invitando – con una serie di proposte – a valorizzare le proprie conoscenze ed il proprio background culturale. Il visitatore giunge poi all’area dedicata al capitolo “Home for All?”. Anche qui un punto interrogativo. Come già detto, l’ingresso del Paese nel mondo industrializzato provocò una migrazione nei centri urbani, a Istanbul in particolare, da cui scaturirono conflitti: gli immigrati infatti non sentendosi accettati innalzarono interi quartieri alla periferia della città, praticamente ghettizzandosi hanno mantenuto un forte spirito di appartenenza alla comunità d’origine. A questo va inoltre aggiunta la politica nazionalista portata avanti dal governo che costrinse i cittadini non musulmani a lasciare la Turchia per salvarsi dalla purificazione etnica e l’ostilità tra la nazione e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan che ha provocato l’emigrazione dei curdi verso occidente. Nonostante l’attuale stato di cose, la nazione sta accogliendo due milioni di rifugiati siriani. Questi evidenti paradossi hanno spinto i collaboratori della mostra a chiedersi se effettivamente la città possa essere la casa di tutti. “Tomorrow, Really?”. In una capitale come Istanbul, ove il futuro convive a stretto contatto con il passato, il futuro è fatto anche di opposte correnti socioculturali e della necessità di superarle avviando un processo di convivenza pacifica e democratica per la salvaguardia del bene pubblico. Dai fatti del 2013 a oggi è emersa questa nuova consapevolezza che gli artisti hanno qui interiorizzato apportando le loro proposte per un futuro migliore.
Il percorso espositivo si chiude con le installazioni di “To Build or Not To Build?”. I curatori della mostra hanno proposto a tre studi di architettura emergenti di progettare nuovi interventi volti alla riqualificazione dei numerosi spazi interstiziali d Istanbul che consenta ai cittadini di utilizzare e vivere appieno e armonicamente ogni spazio del tessuto urbano. Qui a colpire e a indurre a una riflessione più ampia, applicabile a ogni centro abitato, è l’opera “Lost Barrier” di SO? in cui le transenne invitano a riflettere su come gli interventi delle politiche per la sicurezza e l’edilizia trasformino il nostro modo di percepire gli spazi pubblici. La mostra è certamente un percorso istruttivo, illuminante di una realtà tutta in divenire com’è quella della capitale turca attualmente, ma risulta a volte macchinosa e dispersiva non permettendo spesso al visitatore di proiettarsi all’interno di cotanto fervore socioculturale. Personalmente ho faticato a sentire in me la furia del popolo di Istanbul. Le opere sono esposte a Roma, presso il MAXXI, fino al 30 aprile 2016.