Non si diventa Stephen King per caso, fortuna, destino o come vogliamo chiamarlo. Scrivere libri è creare, lasciarsi ispirare ed ispirare chi legge, ma non è mai frutto di un atto totalmente inconsapevole. Certo, la mente lavora su un’idea sia a livello conscio che a livello inconscio, servendosi di esperienze, riferimenti letterari (leggere è fondamentale, anche se l’espressione è talmente abusata da sembrare una frase fatta), o cinematografici e tecnica che si acquisisce nel tempo, sbagliando e riprovando, scrivendo ogni giorno. E’ altrettanto vero, però, che le storie, seppur figlie della libertà artistica, seguono una genesi e un processo di “maturazione” caratterizzati da punti cardine: pensiamo agli edifici, all’estro dell’architetto che si armonizza alla perfezione con le regole di costruzione senza le quali qualunque casa franerebbe neanche fosse un castello di carte ma con un vantaggio eccezionale: nella scrittura tali norme non sono mai assolute e possono essere personalizzate, magari stravolte, a patto di conoscerle bene (e quest’ultima parte non è un optional, ma un segno tangibile della ricerca artistica). Tutto ciò rappresenta il percorso di Stephen King e dei suoi libri; lo scrittore è un vero e proprio maestro della letteratura contemporanea: neanche a lui mancano i detrattori, quelli che lo accusano perfino di utilizzare dei ghost writers per scrivere i suoi successi mondiali, ma questo è fisiologico. King ha fatto della scrittura un mestiere, oltre che un’arte. E’ divenuto, col tempo, artista e artigiano insieme e badate che tra le due cose può non esserci differenza (e, in effetti, molte volte non c’è).
Molti di noi conoscono i suoi “libri di scrittura” come Danse macabre (Theoria, 1996) oppure On writing (Sperling & Kupfer 2001), in cui il celebre autore del Maine racconta il periodo della formazione e le tecniche per dar vita a un romanzo. Chiunque, a questo punto, potrebbe obiettare che King ha una popolarità planetaria perché dotato di talento: vero, ma fino a un certo punto. Il talento da solo è una goccia che non forma l’oceano. Nel caso del “re del brivido” entrano in gioco altri fattori stilistici su cui è opportuno soffermarsi (oltre, ovviamente, alla pratica e al lavoro quotidiano):
- Stephen King ha l’empatia che serve per guardare nel cuore degli uomini, leggervi le paure più nascoste e saperle tirare fuori, raccontare per ciò che sono: tutti i suoi romanzi giocano con le nostre inquietudini (e con le sue, basate sulle esperienze vissute). “Pet Sematary” (1983), per esempio, analizza il timore della morte, il desiderio contro natura di vincerla e tornare dall’aldilà per vivere in eterno, anche se questo significa violare le leggi del mondo, forse sfidare qualcosa d’indefinito ma potente che neppure noi riusciamo a comprendere fino in fondo.
- Sa giocare con le parole, sa manipolarle per stimolare le sensazioni graffianti, disturbanti che cerchiamo di reprimere. Per fare questo occorre essere diretti, avere un certo “tempismo” ed eliminare il superfluo, la ridondanza. Ogni pagina rappresenta una scena di cui non è necessario cogliere ogni minimo dettaglio, solo quelli che hanno il preciso compito di colpire il lettore. Avete presente il momento esatto in cui, dopo un black-out ritorna la luce e noi vediamo all’istante l’insieme dell’ambiente circostante? Solo successivamente ci soffermiamo su alcuni particolari: nel nostro caso è King ad accendere la luce e sempre lui a guidare la nostra vista verso determinati oggetti o personaggi. Nel romanzo “It” (1986), che ebbe problemi con la censura, non c’è una riga superflua, non una parola fuori posto. La storia è lunga, ma una volta terminata la lettura abbiamo la sensazione che non potesse essere scritta direttamente, né eliminate alcune sue parti. Il cerchio si è chiuso.
- Il nostro scrittore non scrive mai storie completamente disancorate dalla realtà e, del resto, non serve scomodare strane creature per provocare orrore. Per certi versi basta la vita reale. Nei romanzi questo realismo si esplica molto bene attraverso i dialoghi, croce e delizia di ogni autore. Prendiamo storie come “Il miglio verde” (1996), oppure “Misery” (1987): le battute non sono mai scritte di getto, ma ragionate. Noi vediamo solo il risultato, ovvero un bel fiume tranquillo che scorre, ma dietro c’è una profonda riflessione che si affina e diventa più celere con l’esperienza. Nel caso specifico de “Il Miglio Verde”, poi, il dualismo tra l’inquietudine e la realtà della società americana, fatta anche di errori e contraddizioni evidenti nella questione della pena di morte, è inscindibile. Le due componenti si fondono in ogni descrizione, in ogni dialogo.
- La costruzione dei personaggi presenta una caratteristica usuale in molti scrittori: far vivere il pensiero dei primi su carta senza che il lettore possa intravedere l’opinione dei secondi abilmente celata dietro le parole. King è un maestro anche in questo. I pensieri dei personaggi sono secchi, contraddittori spesso, spicci come quelli di qualunque essere umano. Soprattutto possono essere cattivi: lo scrittore non nasconde mai nulla, non edulcora, non banalizza, non estremizza né giudica i sentimenti malvagi, (o le situazioni difficili) perfino da scrivere. Del resto la vita è fatta proprio così, non ci chiede il permesso di “regalarci” gioie e dolori. Lo fa e basta e noi dobbiamo accettarlo, benché il magma oscuro del nostro io più profondo conservi sempre la facoltà di ribellarsi.
- Stephen King lo ha detto: per scrivere libri è necessario non avere presunzione alcuna ed essere preparati al fallimento. E’ quest’ultimo che ci spiana la strada, anche se sembra un paradosso. Gli inizi non sono mai facili e certo non lo sono stati per King, basta leggere una sua biografia. Lui, però, ha continuato a scrivere ciò che aveva in mente, le sue ossessioni, nonostante gli inevitabili passi falsi. Insomma, la sua personalità ha plasmato lo stile e viceversa: questo può accadere solo se l’autore, soprattutto nella fase d’esordio, non rinuncia a se stesso per piacere agli altri, trovando una sorta di sintonia con i sogni e gli incubi che gli attraversano la mente. Da dove nasce il modo di scrivere semplice (non facile!), eclettico, cupo eppure vivace, quasi un guizzo nell’oscurità, di Stephen King se non nella capacità di chiudere fuori il mondo e guardarsi dentro in completa solitudine?
Francesca Rossi