Gli speciali di Cultura & Culture – L’Islam
Il mondo intero ha assistito, in questi giorni, a fatti di una tale brutalità da scuotere anche gli animi più razionali. Molte sono state le reazioni “di pancia”, sull’onda dell’istinto e dell’emozione di popoli che si rendono conto di non essere davvero al sicuro, di dover fare di più per proteggersi e, nello stesso tempo, difendere la libertà in ogni sua forma. Impossibile non comprendere tali reazioni, ma ora più che mai c’è bisogno di riflettere, di usare la ragione e analizzare gli errori storici, politici, diplomatici ed economici per cercare di porvi rimedio. Questo speciale sull’Islam nasce proprio dalla volontà di pensare, ragionare, non dare risposte affrettate su temi che necessitano ulteriori approfondimenti, conoscere un mondo, quello arabo-islamico, che non è nato e non si è sviluppato sull’odio, pur covando all’interno frizioni di diversa natura e fratture non sempre visibili a chi lo osservi da una certa distanza. Due avvertimenti, però, sono d’obbligo: per prima cosa questo speciale non può, per ovvi motivi di spazio e di complessità degli argomenti, risultare esauriente. Si offre, invece, di suggerire spunti che il lettore potrà affrontare grazie anche alla bibliografia segnalata alla fine dello speciale. Il secondo punto importante, poi, riguarda lo scopo per cui è stato scritto, che non è e non può essere quello di far vedere a tutti i costi che “L’Islam è buono” o “cattivo”. Tale visione, infatti, oltre a non avere nulla a che fare con l’obiettività scientifica, è estremamente riduttiva e miope. L’Islam, infatti, non è una specie di monolite fermo, immobile nei secoli dal punto di vista storico, politico, religioso ed economico e, di certo, non è arroccato esclusivamente su sentimenti di bontà o di vendetta. Al suo interno, infatti, sono molte e non sempre in accordo le correnti di matrice storico-religiosa e giuridica, così come le interpretazioni coraniche e il modo stesso di “vivere” la religione islamica (pensiamo a due opposti come l’Arabia Saudita e l’Indonesia; quest’ultimo risulta essere il Paese a più alta densità islamica, ovvero la nazione più popolosa a maggioranza musulmana e l’Islam si presenta come estremamente eterogeneo, molto diverso da quello, per esempio, praticato nella Penisola Araba, grazie alla fusione con elementi sociali e religiosi locali). L’Islam, insomma, ha attraversato la Storia, influenzandola e risultandone influenzato, proprio come il Cristianesimo e l’Ebraismo. Dunque vi possiamo trovare elementi in completo disaccordo, persino, voci diverse, perfino in contrasto con l’eterodossia. Non ha senso condannare un intero popolo o un intero credo, dunque e neppure assolverlo. Sia a livello sociale che a livello individuale, in Europa come negli Stati Uniti come in tutti i Paesi arabo-islamici, sono stati commessi errori, omissioni, passi falsi. Ci muoviamo, qui, su un terreno disagiato, in cui è facile che gli animi si surriscaldino. Proprio ciò che dobbiamo evitare e per un motivo molto semplice: chi vuole fare del male, di qualunque religione sia, approfitta della confusione, vuole instillare la paura e il rancore, perché sono sentimenti in grado di offuscare anche il più saldo raziocinio. Cosa fare, dunque? E’ ovvio che quanto accaduto a Parigi, così come le minacce dell’Isis, i rapimenti, le torture e le uccisioni perpetrati dai terroristi non possono essere scusati, né dimenticato e neppure minimizzati. Questo, però, è solo il primo passo. Occorre, poi, che ognuno di noi diventi più consapevole del mondo in cui vive, legga, si informi, non si adagi sul “sentito dire”, ma cominci a scavare nella Storia, tra le fonti, anche se ciò dovesse richiedere anni. Non si tratta solo del lavoro di uno storico, ma di una presa di coscienza che ci riguarda tutti, poiché la superficialità, in un momento come questo, non può essere accettata. Quella suggerita è la strada più complessa e questo articolo non è che un granello di polvere di una montagna molto più alta e tutta da scalare. Del resto, però, quasi nulla è facile nella vita in generale e in questo momento storico in particolare. Non abbiamo alternativa se vogliamo davvero difendere la libertà di tutti e vivere in un mondo dove la diversità sia un vantaggio. Senza conoscenza, infatti, la memoria va persa e, con essa, il concetto stesso di libertà.
Le origini dell’Islam: la storia di Maometto
Per capire l’Islam dobbiamo tornare alle origini, ovvero analizzare la figura storica del “padre” di questa religione, Muhammad ibn Abdallah, il Profeta dell’Islam da noi conosciuto come Maometto. Prima di procedere, però, una breve precisazione: in questo articolo, come già evidenziato sopra, si prenderà in esame il Maometto “storico”; dunque lasceremo da parte la natura delle sue rivelazioni, poiché non abbiamo l’obiettivo di fare discussioni teologiche sul messaggio divino, ma di comprendere meglio la genesi e lo sviluppo storico, sociale e politico dell’Islam in quanto religione, cultura e vera e propria civiltà. Le fonti della vita del Profeta, è giusto ricordarlo, sono il Corano, le raccolte di hadith (ovvero i detti del Profeta catalogati in base alla loro attendibilità) e la biografia redatta dallo storico Ibn Ishaq (morto tra il 768 e il 769) e rivista da Ibn Isham (morto tra l’833 e l’834). Maometto nacque attorno al 570 a La Mecca; discendeva del potente clan dei Banu Hashim, il quale si occupava di custodire il pozzo sacro Zamzam ed era formato da mercanti. Orfano di padre da prima della nascita e di madre fin dalla più tenera età, Maometto venne allevato da suo nonno e, successivamente, da suo zio Abu Talib. Intraprese il mestiere di carovaniere e, a venticinque anni, sposò Khadigia, una bella vedova molto ricca che sarebbe divenuta, di lì a poco, la prima credente nel messaggio religioso rivelato, attraverso l’Arcangelo Gabriele, Da Allah a Maometto. A quanto pare quest’ultimo possedeva un’indole particolarmente orientata verso la spiritualità e, quindi, incline alla ricerca di risposte sui grandi temi che riguardano l’uomo, il senso della vita e l’aldilà. Secondo la tradizione fu un hanif, ovvero un monoteista di origine araba che credeva nell’unicità di Dio senza, però, professare né la religione ebraica né quella cristiana, a spiegare a Maometto che la vera via da seguire non era quella dell’inutile politeismo professato a quel tempo a La Mecca. L’hanif riuscì, in qualche modo, a “piantare” nell’animo del giovane carovaniere il seme del monoteismo. Nel 610 circa Maometto iniziò a ricevere le rivelazioni. Il termine è usato al plurale proprio perché i messaggi divini arrivarono in tempi diversi, una sorta di “frammenti” che avrebbero composto il Libro sacro a tutti i musulmani, cioè il Corano. Maometto, comunque, non si dedicò subito alla predicazione; si sentiva, invece, inquieto, insicuro riguardo a ciò che gli stava accadendo. Così cercò dapprima conforto nei suoi famigliari e negli amici più stretti e solo tre anni dopo la prima rivelazione decise di affrontare i clan e le convenzioni della sua epoca. I primi tempi della predicazione, però, non portarono ai risultati sperati. Maometto venne deriso, insultato e perfino molestato insieme alla sua famiglia. La tribù dei Quraysh (a cui lo stesso Profeta apparteneva) non accettò l’elemento monoteista del nuovo messaggio religioso, poiché non solo rappresentava una aperta ribellione ai clan e ai loro dogmi, ma anche un elemento destabilizzante per la sopravvivenza economica de La Mecca, che gravitava attorno alle divinità, ai loro culti e santuari che attiravano in pellegrinaggio una moltitudine di fedeli. La vita di Maometto divenne di giorno in giorno più difficile; venne accusato di essere un esaltato, un indovino che voleva ergersi a guida della comunità, cosa impensabile per la società de La Mecca. Tuttavia i Banu Hashim continuarono a proteggerlo. La morte della moglie Khadija e dello zio Abu Talib, le due “colonne” in grado di spronarlo e sostenerlo, resero la posizione di Maometto estremamente precaria. Per questa ragione l’uomo cercò ulteriori appoggi, trovandoli nella città di Medina, dove fu accolto nel 622 (ricordato come “anno dell’Egira”) e gli vennero garantiti protezione e riconoscimento formale della sua autorità. A questo punto deve essere fatta una precisazione: in un primo momento Maometto si presentò come profeta non solo della sua gente, ma anche di ebrei e cristiani sperando, così, di poter costruire una comunità che accogliesse le fedi monoteistiche grazie alla loro origine comune che le rendeva, in un certo senso, sorelle. L’opposizione ebraica di Medina, però, rimise in gioco tutto, spezzando questo desiderio di “continuità religiosa” che partiva da Abramo. Da qui l’Islam prese davvero vita, divenendo una religione vera e propria, separata dalle altre, benché le suddette origini non potessero, ovviamente, essere cancellate. Il Profeta esiliò i clan ebraici contrari alla sua ascesa e ne confiscò i beni. Da questo momento iniziò il duro lavoro per la creazione della comunità islamica a Medina con norme, riti religiosi e tradizioni comuni e fondata su una base patriarcale. Al centro della umma (comunità) islamica c’era la famiglia. Non venne equiparato lo status sociale né i diritti di uomini e donne, ma la situazione di queste ultime, rispetto all’epoca preislamica, si modificò notevolmente e con molti vantaggi da non sottovalutare come ad esempio, la possibilità di ereditare, di possedere beni e non essere considerate degli “oggetti”.
La religione islamica, inoltre, mise l’accento sull’individualità dei membri della comunità, mentre in epoca preislamica non esisteva il concetto di “identità” e “individuo”; ogni onore e ogni offesa ricadevano, infatti, sul clan. Durante gli ultimi anni della sua vita Maometto dovette respingere gli attacchi dei nemici per consolidare una comunità ancora in fase di sviluppo. Dovette, dunque, affrontare le truppe meccane nella Battaglia di Badr (623) e riuscì a sconfiggerle nonostante l’evidente disparità numerica. Nel 625, durante la Battaglia di Uhud avvenne la prima disfatta musulmana e nel 627 la Battaglia del Fossato (in realtà fu più un assedio) finì in una situazione di stallo, di sostanziale parità. Nel 628 Maometto decise di intraprendere il pellegrinaggio a La Mecca, una mossa apparentemente azzardata, ma che serviva a dimostrare il suo potere, come anche ad assicurare che la religione islamica non intendeva minare un’usanza tanto redditizia. Fu in quel momento che i meccani e il Profeta conclusero la tregua di al-Hudaybiyya, attraverso la quale ai musulmani fu consentito di recarsi in pellegrinaggio nella città, ma a Maometto non venne riconosciuta l’autorità profetica. Questa tregua venne infranta dai meccani nel 630. Ormai, però, Maometto era un capo forte, con cui fare i conti (cosa di cui i meccani si erano resi conto già due anni prima). Entrò a La Mecca, distrusse gli idoli della Ka’ba e completò, così, la sua vittoria e il suo percorso spirituale e politico in terra. Morì a Medina nel 632, tra le braccia di A’isha, sua moglie favorita, lasciando una umma basata sulla fratellanza, non più su faide tra clan e tribù, in cui l’insegnamento religioso era già penetrato nel tessuto della società, dando vita a un mutamento storico epocale.
Apogeo e declino dell’Islam: Omayyadi e Abbasidi
Il Profeta Maometto morì senza lasciare eredi maschi e neppure in punto di morte designò il suo successore. La umma rimaneva, così, priva della guida politica e spirituale ed esposta al pericolo di attacchi e ribellioni sia interne che esterne, ovvero provenienti dalle tribù già assoggettate. Un chiarimento, a questo punto, è d’obbligo: Maometto non aveva mai preteso per sé alcuna attribuzione divina mettendo, invece, in risalto la sua natura assolutamente umana. Era l’ultimo Profeta in terra, ma la sua natura mortale non era mai stata in discussione. Bisognava trovare il vicario del Profeta, cioè il Califfo successore di Maometto. La contesa si aprì fra le tribù, riflettendo su quali dovessero essere i requisiti per accedere a una carica tanto importante. Il Califfo poteva essere scelto tra quelli che avevano seguito Maometto a Medina, ma anche tra quanti si erano convertiti in quella stessa città. La scelta cadde su Abu Bakr (632-634), padre di A’isha e, dunque, suocero del Profeta. Con lui iniziò la fase dei “Califfi Rashidun” cioè i “ben guidati”, che proseguì con ‘Umar (634-644) il quale riuscì a imprimere una svolta importantissima per quel che riguarda l’espansione militare islamica; sotto il regno di Uthman (644-656) venne redatta la versione ufficiale del Corano, mentre con ‘Ali (656-661) si chiuse la fase dei Califfi ben guidati. A proposito di ‘Ali e di questo particolare momento storico, è necessario ricordare che proprio dopo la morte di Maometto, con il problema della sua successione, cominciò a svilupparsi un gruppo minoritario, che verrà conosciuto in seguito con il nome shi’a, a favore dell’ascesa al potere di ‘Ali in quanto membro della famiglia del Profeta (ricordiamo, infatti, che ‘Ali era il cugino e il genero di Maometto, poiché ne aveva sposato la figlia Fatima). Potremmo dire che è proprio questa la fase embrionale del futuro sciismo e, quindi, della spaccatura tra sunniti (gruppo maggioritario e “ortodosso”) e sciiti. Le dinastie degli Omayyadi (661-750) e degli Abbasidi (749-1258) rappresentano lo sviluppo, l’apogeo e il declino dell’Islam, sono i simboli del consolidamento delle società islamiche e del potere, ma anche della frammentazione di quest’ultimo. Entrambe seppero adattarsi alla perfezione con gli usi dei popoli conquistati, anzi, questa è una caratteristica fondamentale che accompagnò le prime vittorie musulmane e l’espansione territoriale che ne seguì: contrariamente a ciò che alcuni potrebbero pensare, infatti, i musulmani non fecero tabula rasa dei costumi, della struttura organizzativa delle società o della cultura delle genti conquistate, ma seppero fondere, selezionare il meglio di queste con il loro modo di vivere. Un sincretismo in piena regola che non alterò il “nucleo” religioso e culturale islamico, ma lo arricchì. Gli Omayyadi, il cui nome deriva da quello del clan Banu Umayya della tribù dei Quraysh, seppero accentrare, man mano, il potere sul Califfato, privilegiando i rapporti clientelari con l’elite politico-amministrativa che si andava formando. Muʿāwiya ibn Abi Sufyān, primo califfo omayyade, stabilì la capitale a Damasco. Si è detto e scritto molte volte che la loro dinastia si fondò su una matrice araba e questa teoria evidenzia, oltre all’egemonia del popolo arabo, una sorta di “salvaguardia”, da parte dei sovrani omayyadi, della continuità storica del carattere beduino nonostante le conquiste e i sincretismi. Tale continuità, però, si presenterebbe, in alcuni casi, in netta contrapposizione con i dettami islamici. Dalla parte opposta, invece, starebbe il Califfato Abbaside, che soppiantò quello omayyade e il cui nome ha origine da quello di al-ʿAbbās ibnʿAbd al-Muttalib, zio del Profeta. Questa dinastia sarebbe contraddistinta, secondo gli studi, proprio dalla peculiarità islamica, da una contaminazione sociale e culturale che portò a una “raffinatezza” di usi e costumi e a una caratterizzazione di matrice orientale del potere. In realtà, però, questa distinzione è tuttora in corso di revisione, poiché l’opposizione così netta tra elemento arabo ed elemento islamico, tra il carattere omayyade e quello abbaside nel modo di concepire e organizzare la supremazia politica può essere controproducente e falsare le ricerche storiche. Durante il califfato di al-Mansur venne fondata, tra il 762 e il 763, la città di Baghdad, che divenne la capitale politica e culturale del Califfato. Il momento di massimo splendore venne raggiunto con Harun al-Rashid (763-809), che regnò tra il 786 e l’809. Notevole fu, nella sua epoca, il progresso scientifico e letterario; molte delle novelle contenute ne Le Mille e Una Notte, poi, sarebbero ispirate proprio alla vita del celebre sovrano. Al pieno fulgore, però, corrispose anche l’inizio del declino: Harun, infatti, divise l’impero tra i due figli Amin e al-Mamun, creando una frattura insanabile, una inarrestabile disgregazione che, nel tempo, creò lotte e complotti, svuotando di significato e di potere il ruolo dei Califfi di Baghdad fino a renderlo puramente nominale. Si insinuarono nella suddetta spaccatura, approfittando della situazione delicata e in continuo peggioramento, con una supremazia che aveva perso il “baricentro” politico, la dinastia dei Buyidi (sciiti), che riuscirono a concentrare nelle loro mani l’amministrazione del Califfato. Questo non fu che l’inizio di una nuova tappa della storia islamica e di una sorta di “rimescolamento” delle carte sul tavolo dell’egemonia politica, che avrebbe favorito nuovi sovrani e lo smembramento totale del potere centrale.
I rapporti tra Islam e Occidente
Quando pensiamo alle relazioni tra Occidente e Islam è molto probabile che la prima parola in grado di colpire i nostri pensieri sia “guerra”. Ricordiamo le Crociate o l’Assedio di Vienna, l’espansione islamica in Sicilia e in Spagna, o magari ci soffermiamo di più su fatti di Storia recente, contemporanea. Sarebbe un errore (ma anche il risultato della disonestà intellettuale) se cercassimo di minimizzare o negare i suddetti fatti. Sono accaduti, con tutto il loro bagaglio di cause e conseguenze, hanno avuto impatto diverso per entrambe le parti e, benché vadano contestualizzati in base al periodo storico in cui sono avvenuti e alle motivazioni per le quali non li abbiamo dimenticati, non dobbiamo e non possiamo fermarci qui. I rapporti tra musulmani e cristiani non sono stati caratterizzati solo da conflitti che non generano nulla di buono, ma anche da scambi culturali, diplomatici e commerciali, da una viva curiosità reciproca che ha spinto uomini e donne a viaggiare, a scoprire, a capire e qualche volta anche a fraintendere gli usi e i costumi “dell’altro”. Del resto Cristianesimo e Islam condividono le stesse radici e hanno molto in comune, anche se le civiltà in cui si sono sviluppate queste due religioni hanno preso strade diverse, plasmandosi in modo netto e ben differenziato. Come spiega bene Bernard Lewis nella prefazione al suo saggio “I Musulmani alla scoperta dell’Europa” (Rizzoli 2004), in epoca medievale l’Europa forgiata sul credo cristiano vide l’Islam come una sorta di “minaccia a due teste”, ovvero la conquista e la conversione (siamo su un’analisi molto attuale a ben pensarci). Cosa fecero, dunque, i cristiani? Il buonsenso e la ferma volontà di opporsi alle teorie islamiche, confutandole con argomentazioni inoppugnabili, li spinsero a studiare l’Islam, a leggere il Corano, traducendolo in latino (la prima traduzione risale al 1143). Insomma, per ribattere bisognava conoscere bene l’oggetto della discussione; per stravolgere il ragionamento, occorreva capirne il meccanismo, per dirla in modo poco spirituale ma molto schietto. Lewis ci dice anche un’altra cosa di cui dobbiamo tenere conto non solo per motivi di ricerca storica, ma anche per comprendere l’attualità: la civiltà islamica riuscì, sempre nel Medioevo, a crescere, a fiorire, maturando in modo così completo e opulento da sorpassare l’Europa in ambiti quali la matematica, la filosofia, l’astronomia o la medicina. Ciò non solo grazie alle menti brillanti del mondo musulmano, ma grazie anche alla loro riscoperta di trattati dell’epoca antica (come quelli greci, per esempio), che vennero tradotti in arabo e studiati. Alcuni di questi documenti figli di un sapere che rischiava di rimanere sepolto per sempre, giunsero in Europa proprio grazie a tali traduzioni. Cosa accadde in seguito? Cosa rimase di tutta questa conoscenza? Il Medioevo lasciò spazio a tempi nuovi (con questo, però, non possiamo di certo affermare che il Medioevo sia stata un’epoca buia. Sarebbe riduttivo e non terrebbe conto di progressi che furono la base di future scoperte), gli europei attraversarono le ricche sfaccettature del Rinascimento e all’orizzonte li attendeva, non troppo lontano, l’Illuminismo e i diritti dell’uomo (due precisazioni in proposito; i periodi citati sono solo alcuni esempi della una complessità culturale e sociale del mondo occidentale. Inoltre non possiamo intenderli come la “panacea di ogni male”, visto che l’Occidente non è esente da contraddizioni e problemi che vediamo ogni giorno). Di fatto, però, la fine del Medioevo segnò il declino islamico e l’ascesa europea in tutti i campi del sapere. In un certo senso fu come se un “equilibrio” venisse alterato: i musulmani del Medioevo e, a dire il vero, fino al Settecento circa non avevano grande interesse a conoscere l’Europa, i suoi costumi e le sue lingue (a tal proposito, per esempio, la presenza in Europa di più idiomi non era vista positivamente dai musulmani. La si considerava, più che altro, una strana frammentazione se confrontata con l’unità linguistica dei musulmani, rappresentata dall’arabo, lingua sacra del Corano. E’ vero che a esso si affiancarono, nel tempo, il turco e il persiano, ma il primato dell’arabo rimase, in quanto lingua religiosa, letteraria, parlata da tutti i musulmani e non da ristrette elite come accadeva, per esempio, con il persiano. Sia questo idioma che il turco, originariamente, usavano l’alfabeto arabo e presero a prestito anche termini arabi). L’unica cosa che poteva destare la loro attenzione era la possibilità di far arrivare da lì degli schiavi, o magari conquistare territori. Un atteggiamento, questo, facilmente spiegabile con un sentimento di superiorità da parte islamica, un orgoglio generato dalla possibilità di accedere al patrimonio culturale del passato e ad alti livelli di saggezza e conoscenza grazie, appunto, ai testi di eminenti eruditi. In tal senso la storia della cultura occidentale, in special modo europea, ci mostra che, invece, un interesse intellettuale maggiore e più costante verso i figli dell’Islam, la loro lingua, la loro religione e i loro costumi. Lo sbilanciamento culturale già citato e la presa di coscienza che qualcosa stava cambiando non avvenne in poco tempo, ma nell’arco di secoli, attraverso alterne vicende e fortune da entrambe le parti. Tra Settecento e Ottocento, però, la situazione si ribaltò completamente e a quel punto i musulmani iniziarono a interessarsi ai progressi scientifici e letterali occidentali e ad apprendere le lingue europee. Ciò, ovviamente, non era solo il frutto di un desiderio di conoscenza, curiosità e confronto, ma anche di avvenimenti storici e politici che favorirono l’incontro (e anche lo scontro) tra musulmani e occidentali. Insomma per molti secoli le genti al di là del Mediterraneo considerarono gli europei persone piuttosto rozze, oltre che infedeli. Su quest’ultimo termine, a onor del vero, dovremmo fare una trattazione a parte, vista la scia di pregiudizio che si scatenò da entrambe le parti, ognuna convinta di possedere una “verità” inconfutabile. Tutto questo, però, non deve farci pensare che non vi siano stati scambi di ambascerie o i resoconti dei viaggiatori europei e musulmani siano rari se non del tutto assenti. Al contrario. Tra gli esempi più importanti possiamo citare lo scambio di ambascerie tra Carlo Magno e il Califfo Harun al-Rashid: Carlo Magno inviò due “spedizioni” diplomatiche e culturali nel 797 e nell’802, mentre Harun al-Rashid rispose nell’801 e nell’807. Ci fu anche uno scambio epistolare tra la regina Elisabetta I e gli Ottomani per fare fronte comune contro gli spagnoli e perfino Solimano si accordò con Francesco I di Francia contro la forza asburgica. Non mancarono nemmeno viaggiatori musulmani in Europa come il celebre al-Idrisi, nato a Ceuta nel 1099, geografo e viaggiatore che si stabilì a Palermo sotto il regno di Ruggero II e lì scrisse il suo “Libro di Ruggero”, terminato nel 1154; oppure Said Efendi, diplomatico turco inviato in Francia, il quale apprese il francese e il latino (a quanto pare, fu il primo diplomatico turco di cui si abbia notizia a studiare le lingue europee, attività intellettuale non molto in voga tra i musulmani). Questi sono pochi esempi, ma potremmo andare avanti sia parlando di viaggiatori musulmani, che di studiosi correligionari i quali scrissero opere di grande valore culturale sull’Europa e il Cristianesimo pur non attraversandone le terre. Lo stesso potremmo fare con i viaggiatori e gli studiosi cristiani e occidentali. Per concludere è giusto ricordare anche che la prima ambasciata ottomana in Europa venne istituita a Londra nel 1793, come ci ricorda Bernard Lewis e, di seguito, anche nelle altre capitali europee. La storia delle relazioni tra europei e musulmani, quindi, risulta molto più sfaccettata di quanto molti vogliano farci credere, fatta di diffidenza ma anche curiosità, di sfida aperta come di tolleranza, di guerra e di pace.
La Nahḍa
Come abbiamo visto l’Islam attraversò un lungo periodo di declino, dal XIV alla prima metà del XIX secolo circa. Dobbiamo, però, ricordare che la dinastia ottomana rappresentò un’eccezione in un quadro di decadenza culturale. Ci fu una fase discendente, una sorta di “assopimento” della civiltà islamica, ma non possiamo certo dire che questa fosse ormai destinata a scomparire o che non avesse speranza di riemergere. Furono secoli di “immobilità” culturale, ma sotto di essa scorreva ancora linfa vitale pronta a tornare alla luce. E così accadde. La Nahḍa, tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX, segnò il risveglio intellettuale e sociale dell’Islam, un vero e proprio risveglio, una spinta verso il futuro. Il termine viene dalla radice “n-h-ḍ” che in arabo indica il concetto di “risvegliarsi”, “risorgere”. Rinnovamento è la parola chiave, ma dobbiamo tener presente che si trattò di un processo piuttosto lento, che non esplose né per caso né dal nulla, come sempre succede con gli avvenimenti storici o le correnti culturali di tale portata. In questo senso il contatto con gli occidentali fu molto importante, poiché favorì una nuova volontà di conoscere, di rivoluzionare le arti e le scienze, trarre ispirazione da ciò che era già stato fatto per creare qualcosa di originale e innovativo. Qui c’è un punto nodale che riguarda l’essenza della Nahḍa: non può essere definita, infatti, imitazione passiva, pedissequa delle opere e dei progressi occidentali, poiché fu animata da una profonda motivazione alla conoscenza che porta il cambiamento, dalla volontà di studiare, capire e inventare o rifacendosi a dei modelli prestabiliti, oppure allontanandosi da questi, sperimentando. Potremmo chiamare tutto questo “vento di cambiamento”, “fermento culturale” e di certo avremmo una chiara idea di cosa fu la Nahḍa, pur con la consapevolezza che poche espressioni non possono cogliere davvero un evento di portata storica e intellettuale in tutte le sue sfumature. Molti studiosi sono concordi nel dire che il primo seme di questa rivoluzione intellettuale (benché il termine rivoluzione sia molto usato e abusato) venne gettato nel 1798 con la spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto. Il ruolo e il proclama di quest’ultimo, così come il suo scopo militare e politico in Egitto possono essere oggetto di discussione, ma di fatto fu la presenza francese a favorire la nascita e lo sviluppo della stampa egiziana e, quindi, araba in quel periodo storico. Napoleone voleva che i francesi conoscessero l’Egitto, così favorì la pubblicazione di due giornali in lingua francese destinati agli intellettuali e ai soldati, ovvero a coloro che presero parte alla spedizione e, quindi, avevano interesse a conoscere meglio la realtà egiziana.Il primo giornale in lingua araba, invece, venne dato alle stampe nel 1828; si chiamava “Le vicende egiziane” e si trattò di una pubblicazione governativa. Da quel momento la stampa araba subì un notevole impulso ed è necessario ricordare, a tal proposito, la fondazione del famosissimo “al-Ahrām” (Le Piramidi) nel 1875 ad Alessandria. Stiamo parlando del giornale più autorevole di tutto l’Egitto e di uno tra i più importanti del mondo arabo ancora oggi. Nacquero giornali letterari, di tipo politico dove i giornalisti e scrittori (i due ruoli, molto spesso, non erano separati) davano vita a intensi dibattiti o a racconti e romanzi a puntate. Le donne, poi, ebbero un ruolo di rilievo nel giornalismo: la prima pubblicazione araba femminile risale al 1892, quando Hind Nawfal (1860-1920), cristiana di origine siriana, fondò ad Alessandria “al-Fatāh” (La Ragazza), una rivista diretta da suo padre, ma con moltissime collaboratrici. Il risveglio culturale interessò anche la scienza, la tecnologia, la letteratura e le stesse società arabo-islamiche. Tra gli intellettuali di spicco è doveroso ricordare Rifāʿa al-Tahtāwī (1801-1873), scrittore egiziano e uomo illuminato che, insieme ad altri autori dotati di grande personalità e conoscenza dell’Occidente, riuscì a creare una letteratura e una cultura nuova. Da sottolineare, comunque, che l’Egitto possiede un enorme patrimonio culturale conservato e diffuso anche dalla prestigiosissima Università di al-Azhar. Col tempo, poi, gli scrittori arabi riuscirono a trovare e a personalizzare il registro linguistico delle loro opere, scegliendo tra i dialetti o l’arabo classico, oppure l’accostamento dei due in base al tipo di storia narrata e a scoprire uno stile che, pur facendo tesoro della letteratura del passato, era capace di reinventarsi e andare incontro all’epoca e al pubblico moderni. Tra i pionieri della Nahḍa possiamo ricordare anche Nāṣīf al-Yāzigī (1800-1871) e Buṭrus al-Bustānī (1819-1883). Al-Yāzigī nacque in un villaggio vicino Beirut e fu un precoce talento sia nella prosa che nella poesia. La sua opera più conosciuta rimane “La Confluenza dei Due Mari” (1856) e a lui si deve un rinnovamento della lingua araba e una notevole eleganza nello stile che furono di ispirazione per molti altri autori arabi. Un altro cristiano libanese, al-Bustānī, entrò nella Storia della letteratura per le sue doti di traduttore, tradusse l’Antico Testamento e compilò il “Compendio del dizionario enciclopedico” (Muḥīṭ al-muḥīṭ, 1869). Egli credeva nella potenza dell’istruzione, che doveva essere estesa anche alle donne, del progresso in grado di arricchire l’identità nazionale, in quanto modernità e, appunto, identità non erano affatto termini che mal si accordavano tra loro, ma tasselli fondamentali per costruire Paesi più forti e più giusti. L’incontro con l’Occidente doveva, quindi, divenire oggetto di riflessione per la trasformazione e il miglioramento della società. Ciò non significa abbandonare valori o principi propri della cultura araba, ma saperli adattare ai nuovi tempi, scegliere con intelligenza e lungimiranza, senza cadere schiavi di pregiudizi o del miraggio che una semplice imitazione di modelli occidentali poteva dare. I pionieri della Nahḍa credevano nel potenziale di uomini e donne: il già citato al-Tahtāwī sosteneva, nel libro “La guida sicura per le ragazze e i ragazzi” (1872) sosteneva che l’harem e la poligamia fossero soluzioni esistenziali nefaste per le donne alle quali, invece, doveva essere concesso il diritto allo studio. Migliorare la condizione della donna voleva dire rafforzare le stesse nazioni e consentire a mogli, madri e figlie di svolgere attività considerate “maschili” in caso di necessità, oltre che a sviluppare la loro mente e le loro capacità. Dal punto di vista sociale la prima scuola di ostetricia per donne venne aperta nel 1832. Nel 1873 venne aperta, invece, la prima scuola elementare femminile e l’anno dopo la prima scuola secondaria per ragazze. Per la prima diplomata in una scuola superiore dovremo aspettare il 1908. In Egitto, come ci riporta la docente e studiosa Leila Ahmed nel suo saggio “Oltre il Velo” (La Nuova Italia Editrice, 1995), nel 1917 era alfabetizzato il 33% della popolazione urbana maschile, ma in quegli anni stavano nascendo non solo scuole per donne, come abbiamo visto e associazioni femministe come L’Associazione Culturale delle Donne Egiziane fondata nel 1914, tra le altre, anche da Hoda Sha’rawi, una delle pioniere del femminismo egiziano. Le donne, nei primi anni del Novecento, iniziarono a togliersi il velo, a scrivere sui giornali, a studiare in università, a dare un contributo determinante alla letteratura con racconti e romanzi. Dobbiamo, poi, tenere conto che molto fecero, per l’istruzione femminile, anche le scuole missionarie ed europee e i precettori stranieri che lavoravano nelle case dei più abbienti. Tutto ciò non è che la punta dell’iceberg di una vera e propria corsa al progresso e alla trasformazione di società, usi e costumi. Nonostante i cambiamenti, però, non possiamo negare che diversi problemi siano rimasti fino a oggi e altri si siano formati col tempo e con circostanze, purtroppo, favorevoli. Cosa è rimasto nel Duemila di questa potente spinta all’innovazione?
Conclusioni
Poche pagine non possono riassumere la complessità del mondo arabo-islamico. Tra i nomi citati ci sono cristiani e musulmani, artisti, intellettuali, sovrani e viaggiatori, arabi e non, simboli di scambi, contatti, scontri tra l’Europa e l’Islam. Su questa complessità dobbiamo sempre insistere quando ci riferiamo all’Islam e per un motivo ben preciso. Purtroppo dobbiamo fare i conti con la superficialità di certa informazione, a tutti i livelli, che tende a schierare in maniera netta i cattivi da una parte e i buoni dall’altra. Ammesso che una tale suddivisione sia possibile e non sia essa stessa frutto di conclusioni troppo rapide, dato che l’animo umano difficilmente si lascia catalogare così bene, in modo tanto preciso, dobbiamo sempre chiederci cosa c’è “oltre lo specchio” dell’apparenza. Ciò non significa assolutamente giustificare o minimizzare il male, che esiste, non può essere nascosto e va condannato, ma capire perché esso ha attecchito, in che modo, quali fattori lo hanno “aiutato” a emergere. Solo così potremo sperare di cambiare le cose. E’ la strada più difficile, presuppone uno studio costante delle cose del mondo, un continuo dubitare e farsi domande, ma attualmente è l’unica praticabile in nome dell’onestà intellettuale. Bisogna trovare il tempo di fermarsi e spiegare le cose da una parte, ascoltare e riflettere dall’altra, di leggere e comprendere. In mezzo deve esserci un dibattito che tiene conto del bene e del male, della Storia e della modernità, che non contiene “verità assolute” ma opinioni suscettibili di modifica. Conosciamo tutti la vita frenetica che conduciamo ma, se questa ci toglie il tempo per la comprensione, ci rimane solo l’inconsapevolezza, l’ignoranza e, quindi, la paura che genera le catene con cui giocano oscuri personaggi come i terroristi per costringerci a privarci della nostra libertà.
Cosa scegliamo di essere domani?
Francesca Rossi
Bibliografia
Camera D’Afflitto Isabella, “Letteratura araba contemporanea. Dalla Nahḍa a oggi”, Carocci Roma, 2006;
Lapidus Ira, “Storia delle società islamiche vol.I”, Einaudi, Torino, 2000;
Lewis Bernard, “I musulmani alla scoperta dell’Europa”, Rizzoli, Milano 2004;
Ahmed Leila, “Oltre il Velo. La donna nell’Islam da Maometto agli ayatollah”, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1995;
Scarcia Amoretti Biancamaria, “Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia”, Carocci Roma, 2001;
Pirenne Henri, “Maometto e Carlomagno”, Laterza, Bari 2007;