La Candelora, festa che cade il 2 febbraio, merita di essere riscoperta in tutte le sue sfumature di significato. La sua storia non procede su un solo sentiero, ma ne imbocca diversi, tutti paralleli e connessi tra loro. Oggi, purtroppo, la Candelora viene relegata tra le celebrazioni “minori”, benché per il mondo cattolico ricordi una tappa fondamentale nella vita del Cristo, ovvero la sua presentazione al Tempio e la purificazione della Vergine, mentre per le correnti neopagane rappresenti il momento di passaggio tra l’inverno e la primavera. Tutto ciò, però, non è che la fine di una storia avvincente, in cui si mescolano l’elemento religioso e i gesti legati alla quotidianità, la luce e le tenebre, il sonno e il risveglio della Natura e, di conseguenza, le nostre stesse vite. Se vogliamo davvero riconnetterci con questa antica sacralità e arrivare all’anima di tutte le cose che ci circondano, aumentando il nostro senso di consapevolezza, dobbiamo tornare indietro nel tempo e “leggere” questa storia dall’inizio. In Irlanda, in epoca precristiana, si usava festeggiare il periodo dell’anno in cui il freddo invernale era, nello stesso tempo, all’apice e al tramonto poiché, come accade per quasi tutte le cose, al momento di maggior splendore o potenza segue, inesorabilmente un lento declino (il quale, di solito, preannuncia la fine e il nuovo inizio in un ciclo senza soluzione di continuità). Questa festa prendeva il nome di Imbolc, che significa “nel ventre”, “nel grembo” e cadeva il primo febbraio, cioè tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera, a rimarcare la sua natura “spartiacque” tra le due stagioni. Il termine rimanda agli agnelli che nascono proprio in questo periodo e, in senso figurato, sottintende l’inverno che “partorisce”, “dà alla luce” la primavera. La Natura, pian piano, si risveglia, la Terra torna a produrre i suoi frutti, sostentamento dell’intera umanità. Per tradizione, durante Imbolc, si accendevano candele, annuncio dell’imminente arrivo della luce, proprio perché le giornate cominciavano ad allungarsi e a divenire più tiepide. La festività era collegata alla dea celtica Brigit, associata al sole, alla luce della conoscenza, al fuoco e protettrice di druidi e poeti. Il culto di questa divinità ebbe una diffusione molto interessante: nell’Antica Roma la sua figura si fuse con quella di Minerva (combattiva dea della saggezza) e di Epona (dea legata alla fertilità e protettrice dei cavalli e dei muli. Notiamo, a tal proposito, le quattro caratteristiche ricorrenti di queste divinità: il coraggio nella lotta, la forza, sia interiore che esteriore, la sapienza e la connessione con la Natura).
Allo stesso modo in cui la festa di Imbolc venne assimilata nel Cristianesimo, divenendo la Candelora, la dea Brigit venne accostata a santa Brigida (451-525). Soffermiamoci un momento sulla vita di questa santa: il ruolo di santa Brigida, in Irlanda, (da non confondere con Santa Brigida di Svezia, morta nel 1373) viene equiparato a quello di San Patrizio. Entrambi furono evangelizzatori, oltre che religiosi e santi. Le notizie che abbiamo sulla vita di questa donna eccezionale si fondono con le leggende e, a quanto pare, furono raccolte da un monaco irlandese di nome Cogitosus di cui, però, non sappiamo nulla, né la data di nascita, né quella di morte, né altri dettagli sulla sua esistenza. Conosciamo solo la sua “Vita Brigidae” scritta, forse, attorno al 650. Stando a quest’opera Brigida era figlia di una schiava di origine incerta, convertitasi al Cristianesimo e di un pagano. San Patrizio aveva già evangelizzato l’Irlanda e probabilmente la sua esistenza ebbe una certa influenza sulla conversione di Brigida, avvenuta quando era ancora una ragazzina. Narrano le leggende che la giovane, sempre buona con i bisognosi, un giorno donò loro tutto il latte che aveva appena munto. Consapevole del fatto che i genitori non avrebbero preso bene questa sua iniziativa, pregò Dio affinché l’aiutasse in qualche modo. Quando tornò a casa si accorse che il secchio era di nuovo pieno di latte. Un’altra leggenda, straordinaria nel suo significato più profondo, dice che Brigida fu in grado di ridare la vista a una monaca cieca solo passandole una mano di fronte agli occhi. La monaca, dopo aver guardato per un attimo l’ambiente circostante pregò: “Chiudimi di nuovo gli occhi, poiché quando il mondo è visibile, Dio risulta meno chiaro all’anima”. Brigida divenne badessa del monastero di Kildare, da lei fondato (a dire il vero fondò diversi conventi, ma questo è il più famoso), che ospitava uomini e donne decisi a consacrare la loro vita a Dio. La futura santa diresse sia la sezione maschile che quella femminile e nessuno trovò da ridire su questo. E’ possibile, infatti, che il ruolo della donna, decisivo fra i Celti (ricordiamo l’importanza del matriarcato e della matrilinearità in queste società), si riverberasse nella struttura gerarchica del monastero, inteso come una sorta di “famiglia”. Del resto, sebbene cristianizzata, l’Irlanda non abbandonò tradizioni e, quindi, background culturale dalla sera alla mattina, anzi, le sue peculiarità sociali e religiose si tramandarono, seppur reinterpretate, di generazione in generazione. La festa di Santa Brigida cade proprio il primo febbraio; è piuttosto naturale l’accostamento della generosità, del senso pratico e della saggezza di questa donna alle qualità suddette della dea Brigit, sostenute da una base “soprannaturale” (la prima fa miracoli, è una santa, la seconda una divinità). In Irlanda, ancora oggi, c’è la tradizione di costruire, alla vigilia del primo febbraio, una “croce di Santa Brigida”, fatta di vimini o giunchi, da appendere sulla porta di casa per augurare agli altri e, nello stesso tempo, assicurare a se stessi pace e prosperità. Ogni anno la vecchia croce viene gettata via per far posto a quella nuova. La sua forma è molto particolare, poiché le “braccia” non sono sullo stesso livello, tanto da ricordare addirittura una svastica, anch’essa simbolo, per buddhisti e induisti, di luce, armonia e pace (lo è ancora oggi, benché, purtroppo, il nazismo se ne sia appropriato, stravolgendone il significato originario). A quanto pare l’idea della croce sarebbe nata quando santa Brigida tentò di convertire un pagano moribondo. Per accompagnarlo nel momento del trapasso, iniziò a intrecciare dei giunchi al fine di formare una croce. L’uomo le chiese spiegazioni sullo strano oggetto creato e le parole dolci e rasserenanti della santa riuscirono a convertirlo al Cristianesimo.
La Candelora affonda le sue origini non solo nel mondo celtico, ma anche in quello romano: le calende di febbraio (cioè il primo giorno) era dedicato alla dea Giunone, conosciuta anche con il nome di Februa, probabilmente mutuato dalla divinità etrusca maschile Februus. Questo appellativo rimandava alla guarigione dalle febbri, soprattutto la malaria (molti di voi conosceranno, a tal proposito, la storia della pianura/palude pontina in cui imperversava questa malattia). Giunone, quindi, rappresentava la divinità da ingraziarsi per ottenere la salvezza, la purificazione e, di conseguenza, l’espiazione non solo dalla malattia, ma anche dalle colpe dello spirito; non a caso le donne, durante le celebrazioni a lei dedicate, usavano portarle in dono delle fiaccole accese (il fuoco purificatore). La Candelora si sovrappose a questa festa, ma anche a quella dei Lupercalia, che cadevano tra il 13 e il 15 febbraio in onore dei dio Lupercus. Quest’ultimo era la divinità protettrice del bestiame e non a caso venne assimilato alle figure del fauno e del satiro, legate a filo doppio con la Natura. I Lupercalia si celebravano in una grotta del Monte Palatino, Lupercale e avevano un doppio significato: da una parte, come ci racconta Plutarco (48 d.C. circa-127 d.C. circa) nelle “Vite Parallele” (I-II sec. d.C.) si trattava di riti purificatori (proprio come quelli dedicati a Giunone), dall’altro ricordavano il ritrovamento e l’allattamento di Romolo e Remo da parte della Lupa. Sulle origini della festa dei Lupercalia ci sono diverse opinioni, ma una tra queste si collega molto bene alla purificazione chiesta alla dea Februa. Come narra Ovidio (43 a.C.-18 d.C.) nel secondo libro dei Fasti (9 d.C.) all’epoca di Romolo le donne sarebbero state “colpite” dalla sterilità. Per risolvere il problema queste si recarono proprio nel tempio di Giunone ubicato sul più alto dei sette colli, cioè l’Esquilino. La dea pretese il sacrificio di un caprone la cui pelle, tagliata a strisce, doveva toccare la schiena delle donne sterili. Solo così sarebbe stata concessa loro, di nuovo, la capacità di procreare. Il popolo seguì alla lettera le indicazioni e le fanciulle, nove mesi dopo, diedero alla luce i loro figli. Fu Papa Gelasio I (morto nel 496 ed eletto nel 492) ad abolire i Lupercalia, sostituendoli con una festività dedicata ancora alla purificazione ma, stavolta, della Vergine Maria. E’ probabile, comunque, che l’antica tradizione romana sia sopravvissuta per alcuni anni dopo la soppressione voluta dal Pontefice, poiché il “passaggio” da questa alla Candelora non fu immediato (quasi mai lo è), bensì costituito da fasi intermedie. Di certo sappiamo che l’imperatore bizantino Giustiniano (482-565; incoronato nel 527) spostò la festa al 2 febbraio nel 542.
Fin dai tempi del papa Sergio I (650 circa-701; eletto nel 687) la Candelora era celebrata con una processione mariana che, da S. Adriano arrivava fino a Santa Maria Maggiore e durante la quale i fedeli camminavano, di notte, con dei ceri accesi che venivano, poi, benedetti (usanza attestata dal X secolo). Queste candele venivano conservate (e in molte regioni si fa ancora) nelle case per tutto l’anno e potevano essere accese per scongiurare pericoli imminenti o catastrofi naturali. In molte parti d’Italia esiste un proverbio che recita più o meno così: “Madonna della Candelora, dell’inverno semo fora, ma se piove o tira vento, de l’inverno semo ancora ‘rento” (ogni regione, poi, lo declina in maniera più o meno diversa in base al dialetto). Ci sono anche altre versioni opposte, secondo le quali se piove o nevica significa che l’inverno sta per cedere il passo alla primavera. Abbiamo appena accennato alla trasformazione di questa festa pagana, romana e celtica, in una celebrazione cristiana, nello specifico mariana. Se ci pensiamo, infatti, il 2 febbraio è il quarantesimo giorno dalla nascita di Gesù. Questo numero, che nella simbologia numerica è sempre associato al rito di passaggio della purificazione, a una sorta di ascesa a un livello più alto di consapevolezza, ritorna molte volte in ambito religioso: nella Quaresima, quindi nei giorni trascorsi da Gesù nel deserto; negli anni passati, sempre nel deserto, dagli ebrei guidati da Mosè, il quale trascorse quaranta giorni sul Monte Sinai per ricevere le tavole della Legge; nello stesso libro dell’Esodo, composto da quaranta capitoli; nel diluvio universale, che durò quaranta giorni; nel tempo intercorso tra la morte e la Resurrezione del Cristo, ovvero quaranta ore e nella sua Ascensione, che avvenne quaranta giorni dopo la Pasqua.
In tempi molto antichi, prima che la Candelora venisse spostata al 2 febbraio, veniva celebrata il 14, ovvero quaranta giorni dopo l’Epifania. Nel caso di questa festa, poi, abbiamo già visto l’importanza dell’elemento della purificazione in ambito pagano, però tale aspetto si rinnova ulteriormente sia nella religione ebraica che in quella cattolica. Per gli ebrei, infatti, una donna che avesse appena partorito era considerata impura del sangue del parto stesso, lo stesso accadeva nei periodi del ciclo mestruale. Il Levitico sostiene che: “Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario…Quando i giorni della sua purificazione…saranno compiuti, porterà al sacerdote…un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio di espiazione…” (Levitico 12, 2-6). Quindi sia la madre che il bambino dovevano presentarsi al Tempio, la prima per i riti suddetti, il secondo per essere “riscattato” tramite un’offerta. Si tratta di antichissime tradizioni religiose ebraiche che rappresentano, comunque, una “trasformazione” da una condizione di impurità, quindi di non accettazione nella società, a un’altra condizione, stavolta “perfetta”, pura, senza macchia. Per il neonato, inoltre, era un vero e proprio rito d’iniziazione che ricordava la fine della schiavitù degli ebrei in Egitto. Nell’Esodo tutto ciò viene spiegato in modo molto chiaro: “Quando il Signore ti avrà fatto entrare nel paese del Cananeo…tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno; ogni primo parto del bestiame, se di sesso maschile, appartiene al Signore. Quando tuo figlio domani ti chiederà: che significa ciò? Tu gli risponderai: con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto, dalla condizione servile. Poiché il faraone si ostinava a non lasciarci partire, il Signore ha ucciso ogni primogenito nel Paese d’Egitto, i primogeniti degli uomini e i primogeniti del bestiame. Per questo io sacrifico al Signore ogni primo frutto del seno materno, se di sesso maschile e riscatto ogni primogenito dei miei figli…” (Esodo 13, 11-15). Nel caso di Gesù e di Maria non parliamo di una madre e di un figlio come tutti gli altri, almeno per chi crede. In realtà il bambino è consacrato a Dio fin da subito, non ha bisogno di riscatto, né di essere “offerto” al Signore; allo stesso modo la Vergine non ha necessità di purificarsi data la sua natura. Entrambi, però, adempiono comunque ai rituali prescritti. Dal punto di vista teologico l’evento della Presentazione al Tempio, narrato nel Vangelo di Luca, ha un significato più ampio, cioè di “far conoscere” al mondo il Messia e, nello stesso tempo, segnare una continuità tra la religione ebraica in cui Gesù nacque e venne cresciuto, con il nuovo messaggio da questi predicato in età adulta.
Le “prove” che sanciscono la natura messianica del piccolo Gesù vengono, nel racconto biblico, da due personaggi: Simeone e la profetessa Anna. Al primo, in particolare, lo Spirito Santo aveva profetizzato che non sarebbe morto senza prima aver conosciuto il Messia. Recatosi al Tempio proprio lo stesso giorno in cui vi era la Sacra Famiglia, Simeone riconobbe immediatamente in Gesù la concretizzazione di quella profezia e preannunciò a Maria il suo futuro dolore e la missione del figlio: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele…e anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Luca 2, 34-35). Nel mondo contemporaneo al significato cristiano della Candelora si sono sovrapposti anche quelli legati al mondo celtico e romano. Molte correnti religiose neopagane come la Wicca, per esempio, hanno reinterpretato la festa di Imbolc, lasciando intatto il significato di passaggio tra l’inverno e la primavera e quello connesso alla purificazione e celebrando uno dei sabba più importanti che prevede dei rituali particolari con cui ci si libera tanto di vecchi e nocivi, o inutili, schemi di comportamento, quanto di oggetti ormai usurati dal tempo. La parola “sabba” non deve assolutamente spaventarci, né indurci a pensare alle classiche streghe dal cappello a punta e nemmeno a sinistri rituali rivolti a chissà quale entità infera e tantomeno hanno a che vedere con ciò che, al riguardo, sostenevano gli inquisitori. L’essenza della Candelora (e, in generale, di ogni festività legata al ciclo vitale della terra) per i wiccan sta nella creazione di un cerchio rituale all’interno del quale pregare e celebrare i rituali nel totale rispetto di sé e degli altri (o almeno così dovrebbe essere, poi sappiamo tutti quanto l’umanità, al di là della religione e delle convinzioni, sia “variegata”, tanto che nessuno può prevedere eventuali atteggiamenti poco consoni non solo alla Wicca o ad altre confessioni, ma proprio al “sentire e vivere comune”. Le brutte eccezioni, però, non devono diventare la base su cui edificare i cliché, mentre il rispetto è un valore universale). Negli Stati Uniti la Candelora è conosciuta anche come “Groundhog Day”, cioè “Giorno della Marmotta”: infatti è tradizione, dal 1887, trovare e osservare una marmotta nella tana. Se questa esce nel momento in cui le nuvole non permettono alla sua ombra di riflettersi, allora l’inverno finirà presto, in caso contrario la marmotta, spaventata dall’ombra, si rifugerà nella tana, auspicio di altre sei settimane al freddo. In Francia la Candelora ha conservato il suo particolarissimo fascino, soprattutto in ambito culinario: in questo giorno le regine della tavola sono le crêpes, cialde fatte con uova, latte e farina, cucinate in moltissimo modi. Si dice che i francesi le mangiarono per la prima volta a Roma, durante la festa della Candelora, sotto il pontificato di Gelasio I. Fu quest’ultimo, infatti, a offrire ai pellegrini stanchi e affamati i primi impasti di uova e farina. Da allora le crêpes divennero un simbolo di pace e di alleanza, tanto che perfino i mezzadri le offrivano, per l’occasione, ai loro padroni. C’è anche un’altra leggenda francese secondo la quale, per avere fortuna e prosperità, occorre esprimere un desiderio mentre si cucina la crêpe avendo, però, cura di tenere il manico della padella con la sinistra e una moneta d’oro con la destra.
L’impasto, per cuocere bene, deve saltare in padella, ma attenzione a non farlo cadere a terra né incollare ai muri o al soffitto di casa, altrimenti il desiderio non si avvererà! In Italia, precisamente in Sicilia, la Candelora è stata parzialmente assimilata alla luminosissima festa in onore di Sant’Agata (229/235 circa-251), dal 3 al 5 febbraio. La santa, di famiglia nobile, si consacrò alla vita monastica ad appena quindici anni. Era una ragazza molto determinata, molto bella e colta. Il proconsole Quinziano arrivò a Catania per attuare l’editto dell’imperatore Decio (201-251; in carica dal 249), il quale pretendeva che i membri di altre fedi facessero sacrifici agli dei di Roma, abiurando il loro credo. Sant’Agata rifiutò e, dopo un tentativo fallito di fuga, si ritrovò al cospetto del proconsole. Quest’ultimo si innamorò all’istante di lei e insistette affinché ripudiasse la sua religione. Ottenuto un secco rifiuto Quinziano pensò di affidarla a una cortigiana, Afrodisia, affinché ne corrompesse i costumi. Anche questo tentativo fallì miseramente. A quel punto l’uomo passò alle maniere forti: il processo, la tortura attraverso la frusta e lo strappo dei seni con delle tenaglie, infine i carboni ardenti. Agata morì dopo l’ultimo supplizio, ma insieme a lei non perì né la sua forza d’animo, né il suo esempio. I siciliani, nella Storia, hanno invocato più volte il suo aiuto, per esempio durante le eruzioni dell’Etna o la peste nel 1576. Oggi, durante la sua festa, Catania è si accende sotto il calore delle festose luminarie, del coloratissimo mercato, con le reliquie della santa portate in processioni dagli esponenti delle più importanti “corporazioni” (cerei o cannalori) dei mestieri. Anche in questo caso la luce è un elemento fondamentale, poiché rappresenta la speranza che rinasce dopo il dolore (quello della santa durante il martirio), ma anche la sacralità e la santità. Le origini della Candelora si perdono tra Cristianesimo e Paganesimo, per poi tornare a fondersi e stratificarsi in questi, come nei culti dedicati ad antiche divinità femminili e alle sante. Ancora una volta, infatti, la presenza di una dea o di una donna consacrata a Dio e poi santificata è centrale: presenze benevole, avvolte da un’aura soprannaturale che, dall’alto, osservano gli uomini e sembrano volerli proteggere nel grande grembo della Terra. Forse il vero significato della Candelora, il senso di tutta la sua storia sta proprio in questo ventre materno che “dà alla luce”, che “mette al mondo” e difende la vita, destinata a rinascere sempre e accanto alla quale il buio, il sonno e la morte non sono che brevi preludi a un nuovo risveglio illuminato dalla luce della speranza.