È una trappola del conformismo, ricordare delle persone la morte, anziché le opere in vita: per quanto orribile sia, sarà sempre e comunque socia di minoranza dell’importanza della loro vita. Vale per Pasolini, vale anche per il politico a cui dedicò un articolo di linguistica, commentando il suo enigmatico linguaggio: Aldo Moro, che esattamente 35 anni fa fu rapito dalle Brigate Rosse, e poi assassinato, dopo 55 giorni. E i cinque poliziotti della scorta, uccisi. Quel giorno, il IV governo Andreotti nato su iniziativa di Moro, presidente Dc, con il Pci, chiedeva la fiducia: non fu un caso la scelta del giorno per un sequestro il cui obiettivo avrebbe dovuto ledere ogni compromesso storico tra il Pci e la Dc per governi di centrosinistra di cui lo stesso Moro era stato artefice, e primo ministro. La politica fu scissa tra chi avrebbe voluto trattare coi brigatisti, per salvare la vita di Moro, e chi fu indisponibile. Durante il sequestro, numerose furono le lettere di Moro scritte a denunciare le colpe e le nefandezze della politica, in particolare della Dc: memoriale che fu non a caso rinvenuto nel bunker Br solo nel 1990. Ma Moro fu vittima di un sistema ben più grande poiché inviso agli USA: è il 1974 quando, durante un colloquio col segretario di stato Kissinger, anticomunista, rimane talmente colpito dalle sue violenze verbali, da avere un malore. Moro, politico timido, sfuggente, è stata una figura raccontata dalla letteratura, dal cinema, dalla musica: Pasolini se ne occuperà anche come giornalista, sul Corriere della Sera, e come romanziere nell’incompiuto Petrolio; Leonardo Sciascia ne fa un protagonista di Todo Modo, ed il premio Oscar Elio Petri lo racconta nell’omonimo film. Forza Italia!, documentario satirico di Roberto Faenza e Carlo Rossella, ne immortala discorsi non ufficiali, dai repertori delle tv estere. Stefano Benni, lo scrive come protagonista de La tribù di Moro Seduto, libro satirico, ritirato a causa del sequestro, e della morte. Sciascia tornerà ad occuparsi di Moro dopo la morte, nel pamphlet L’Affaire Moro. La sua figura torna al cinema in Buongiorno, Notte di Bellocchio, e Romanzo di una strage di Giordana, interpretato da un bravo Gifuni, segno di un tormento anche culturale, nei confronti della sua vita, e della sua morte. In musica, è Jovanotti a occuparsene in una canzone, Mario. Ma è Giorgio Gaber, due anni dopo l’assassinio, a dedicargli una strofa nell’estrema canzone Io se fossi Dio, j’accuse nei confronti di quasi tutta la classe politica: nel testo, scritto con Sandro Luporini, stigmatizza il fatto che l’assassinio lo abbia consacrato a grande statista, additandolo, assieme a tutta la Democrazia Cristiana, come “il responsabile maggiore, di 30 anni di cancrena italiana”. La sua morte ricade, oltre che sulle Br, sulla responsabilità della classe politica di allora, in particolare del suo partito. Oggi, è stato ricordato sia dalla Presidente della Camera Boldrini, sia dal Presidente del Senato Grasso, sia dal Presidente del Senato Provvisorio Colombo, suo ex collega di partito, e quasi coetaneo.
Daniel Agami