Archive: il nuovo disco tra genialità e buchi nell’acqua

il nuovo disco ArchiveL’uscita di nuovo disco degli Archive è sempre atteso come un piccolo evento perché non sai mai dove la loro fame di novità e sperimentazione li abbia portati. Già con Axiom, il progetto audiovisivo del 2014, il collettivo inglese aveva poggiato l’ennesima pietra luminosa della loro eccellente discografia. Restriction, decimo album in studio del gruppo di South London, era dunque carico di grandi aspettative, in questo caso solo parzialmente rispettate. Darius Keeler e Danny Griffiths, fondatori della band, mettono assieme un lavoro discontinuo che oscilla spesso tra il colpo di genio e il buco nell’acqua. Capita, a una realtà che calca i palcoscenici dal 1994 e che ha spaziato dal trip-hop al prog, dall’elettronica all’ambient, passando per la psichedelia. Succede anche in questo caso, ma i risultati sono dolceamari. “Feel it”, pezzo d’apertura del disco, rappresenta un approccio debole e, a larghi tratti, avvilente. Il ritornello, che consiste solamente in un urlare in modo slabbrato il titolo della canzone, è clamorosamente sbagliato e crea un’interferenza profonda nel tessuto del racconto sonoro che, pur basandosi su un banale riff di chitarra, è godibile. Conoscendo lo spessore artistico del gruppo, si resta scioccati da una trovata del genere. Ma magari è solo un episodio sfortunato. E invece no. Perché “Restriction” è un pezzo irritante dal primo all’ultimo secondo. Se lo scopo era disgustare l’ascoltatore, dieci e lode a loro. Ogni verso della canzone è ripetuto tre volte, di continuo, per 4 minuti, creando un effetto cacofonico che fa scoppiare la testa. Un brano che non andrebbe pubblicato neanche come b-side. A questo punto, almeno, le cose non possono che migliorare, così “Kid Corner” rialza le quotazioni di Keeler, Griffiths e compagni: la voce femminile domina un brano in cui si mescolano leggerezza e oscurità, il tappeto elettronico in questo caso è ricco e fluente e il timbro degli Archive riesce finalmente ad emergere. archive nuovo discoLo conferma “End of Our Days”, che ricalca “Televators” dei Mars Volta, gioiello del 2003, ma riesce a non suonare (troppo) obsoleta: piano e voce si intrecciano in una melodia struggente, su cui incedono cori e batteria che contribuiscono ad arricchire una miscela già di per sé vincente. 2-2, finora. “Third Quarter Storm” parte come una ninna nanna (in vaga salsa Radiohead) che si sviluppa in Panning (o Ping Pong, un effetto per cui il suono passa da una cuffia all’altra velocemente) per poi inacidirsi bruscamente, tornare sul mare calmo dei quattro quarti e infine inacidirsi di nuovo. La scrittura, però, sembra sempre stanca. E le idee poche. Almeno finché il cantato è maschile, perché in “Half Built Houses” torna il dolcissimo binomio pianoforte-voce femminile e di nuovo, il risultato è di gran lunga migliore. Il brano è una ballata eccelsa, morbosa, scura. Riuscita, in parole povere. Che fa da ponte alla triade “Ride in Squares”, “Ruination” e “Crashed”, tre pezzi di stampo trip-hop che progressivamente diventato più oscuri e martellanti con un vertice d’eccellenza nell’ultimo episodio, in cui finalmente si respira freschezza compositiva e un’alta sintassi musicale. La rotta insomma è decisamente cambiata, dopo l’avvio shock delle prime due canzoni. Pausa (necessaria) con “Black&Blue”, altra meravigliosa ballata introspettiva e intimista in puro stile Archive, con una splendida voce femminile in primo piano. “Greater Goodbye”, penultima traccia dell’album, è una canzone che lascia abbastanza indifferenti in cui l’amore del gruppo per la ripetizione trova ampio sfogo con un riff persistente di pianoforte su cui intervengono innesti di voce, chitarra, basso e sintetizzatore. Lo spettro di una chiusura simile all’apertura si fa strada. Ma “Ladders”, per fortuna, conclude più che degnamente il decimo album della band londinese, in cui un tono epico incarnato da cori celestiali precede il solito cambio di passo a metà pezzo con l’ingresso di sezione ritmica, distorsori e sintetizzatori. Buono, ma non eccezionale. E il giudizio finale sul nuovo disco degli Archive coincide perfettamente con quello del suo brano di chiusura: un lavoro in chiaroscuro dove la consueta attenzione maniacale ai suoni è controbilanciata da una certa pesantezza in fase di scrittura. Il collettivo britannico ci aveva evidentemente abituati fin troppo bene.

 

Paolo Gresta

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