La recensione di Automata. Con una trama semplice e lineare, ma con delle evidenti imperfezioni, il film è uscito in Italia il 26 febbraio.
Presentato in anteprima alla 62esima edizione del Festival di San Sebastián, Automata è il secondo lungometraggio di Gabe Ibáñez fattosi notare nel 2009 con Hierro, thriller psicologico prodotto dal patron del fantastico iberico Guillermo del Toro e da Alfonso Cuarón, regista di Gravity. Il retroterra che ispira maggiormente il regista spagnolo è quello ancorato alla revisione intimista dei classici action a tematica fantascientifica o tendenti al mistery e, a causa di ciò, il suo Automata convince poco, soprattutto per la sua stessa natura di opera-omnia che contiene infinite variazioni derivate dalle precedenti filmografie a tematica robotica. Il film, ambientato in un futuro post-apocalittico, racconta di un mondo ormai prossimo alla totale desertificazione causata dalle tempeste radioattive. Nel 2047 gli esseri umani vivono a stretto contatto con gli androidi in un deserto senza fine circondato da sabbia e discariche abbandonate, finché la Roc Robotics Corporation decide di creare un nuovo modello di robot quantistico chiamato Pilgrim 7000, prototipo studiato appositamente per accompagnare i superstiti prima dell’avvento di una nuova era. Non appena vengono scoperte preoccupanti anomalie nel funzionamento di alcuni Pilgrim, è chiamato in causa l’agente Jacq Vacuan (Antonio Banderas) che avrà il non facile compito di scoprire chi ha manipolato le macchine difettose. Aiutato da alcuni di loro, si troverà a dover scegliere se stare dalla parte di un’umanità violenta e assoggettatrice o se patteggiare con i robot che intanto stanno sviluppando una propria autonoma coscienza. Costruito intorno ad una trama semplice e lineare, Automata guarda da vicino a Blade Runner, non solo per gli ambienti urbani piovosi e per le panoramiche a tutto campo nella città sulfurea invasa da luci al neon e ologrammi, quanto per la riflessione sull’intelligenza artificiale che, prendendo coscienza della sua condizione di sottomissione, inizia a tracciare una linea evolutiva molto simile a quella che ha portato il suo creatore da scimmia a uomo. Alla prima parte del film, la più riuscita, nonché la più meditativa, pervasa da un’oscurità “noir” in cui l’agente investigativo e i suoi superiori snocciolano le prove indiziarie, segue una seconda metà in cui il paesaggio, dalla foschia urbana, si offre allo spettatore sotto forma di enorme spazio periferico degradato in cui è isolato Vacuan, trovatosi lì per adempiere alla sua missione e assicurare un degno futuro alla moglie incinta. Qualche inseguimento in auto, due sparatorie in mezzo al nulla contro villain da operetta, cattivi ma non troppo e, in men che non di dica, l’intera faccenda è risolta, senza scomodare né Asimov (chiamato in causa solo per le leggi della robotica) e né Philip K. Dick e senza neanche lontanamente riuscire a misurarsi con il capolavoro di Ridley Scott, più complesso e sfaccettato. Non basta fregiarsi di un coppia-iconica come Antonio Banderas e Melanie Griffith per risollevare le sorti di un thriller- sci-fi senza mordente, e non serve scimmiottare l’intimismo filosofico di tanti film, tra cui l’iberico Eva, per fare la differenza nel mare magnum delle tante fanta-opere in circolazione. Le migliori intuizioni, tra cui l’atmosfera cupa dei primi quaranta minuti o i colloqui coi robot negli spazi brulli che ricordano le spianate percorse da Mad Max, facevano prospettare una grande epopea distopica, invece, man mano che si dipana la storia, l’intreccio si fa inverosimile e la noia prende il sopravvento. Automata è l’occasione sprecata per rinverdire il filone della fantascienza d’autore, finora nutrita grazie all’immaginario di registi come Neill Blomkamp, Gareth Edwards o Doug Liman.
Vincenzo Palermo