Valutazione film [usr 2.5]
L’uscita americana del film Blackhat ha decretato, tanto nei numeri (clamoroso flop al box office), quanto nella critica (che ha stroncato il film), il fallimento di uno dei registi statunitensi più rappresentativi degli ultimi trent’anni. Il cineasta di Chicago, rinomato per aver nobilitato il cinema di genere con pietre miliari come Strade Violente o Heat – La Sfida, e famoso per i suoi affreschi metropolitani che raccontano l’alienazione e la violenza della “giungla d’asfalto”, sceglie di adeguarsi ai tempi, confezionando un solido ma prevedibile action thriller che ben rappresenta l’oscurantismo delle comunicazioni virtuali di massa. Affidando il ruolo di protagonista a Chris Hemsworth, poco credibile nei panni di un hacker ed ex galeotto assoldato dall’Fbi e dai servizi segreti cinesi per sconfiggere un altro pirata informatico, rischia il tutto per tutto; mr. Hathaway, bello, biondo e atletico, se da una parte ha le physique du rôle (già sfoggiato nei due Thor) per interpretare il paladino senza macchia e senza paura, dall’altra appare troppo ingessato, poco espressivo e fin troppo fascinoso per la parte da ricoprire. Ma questo è il meno. Chiamato dalle alte sfere governative per acciuffare un pericoloso terrorista, reo di aver provocato, dopo un meditato attacco informatico, l’esplosione di una centrale nucleare di Hong Kong e il crollo della borsa di Chicago, si mette sulle tracce del nemico insieme al capitano Dawai. Coinvolto personalmente dalla rete criminale che si dirama da Hong Kong alla Cina e dalla Malesia alle affollate periferie di Jakarta, Nick Hathaway sarà, suo malgrado, cacciatore e preda in una battaglia urbana senza esclusione di colpi. A sei anni di distanza da Nemico Pubblico, Michael Mann torna dietro la sua (traballante) macchina da presa, preservando come sempre il violento realismo della messa in scena, e ribadendo, tra insegne notturne al neon e “uomini della folla”, che l’essere umano è solo, nelle “strade violente” (come uno dei suoi film più celebrati) e nel cyber spazio virtuale di Blackhat, su cui si spostano codici criptati e ingenti capitali. L’inferno metropolitano, che il regista rappresenta attraverso sparatorie a effetto e raid calcolati degli “invisibili” villain, si snoda lungo direttrici spaziali fisiche, grazie alle sortite offensive che vanno da Hong Kong a Jakarta, e alla rete di interconnessioni multiple gestite da potenti software informatici. Quello che non funziona in un film peraltro gradevole esteticamente (stiamo pur sempre parlando del re del poliziesco contemporaneo) sono le soluzioni adottate, decisamente fuori tempo massimo, dalla camera a mano traballante, all’obsolescenza della trama. Ad una prima parte giocata tutta sull’attesa e sulla promessa di un climax vertiginoso, segue una frettolosa seconda metà in cui si concentra il “gioco violento”, spostando l’attenzione dalle strategie tecnologiche alle armi da fuoco e non (anche i coltelli e perfino un cacciavite la fanno da padroni). Blackhat è il capitolo più debole dei precedenti racconti sulla notte criminale (Miami Vice e soprattutto il magnifico Collateral), tanto nel virtuosismo scenico, quanto nello sviluppo della trama. Fatta salva la riflessione sulla società globalizzata e interconnessa, in cui anche il crimine, evolvendosi, produce meccanismi sempre più sofisticati per attaccare il sistema capitalistico, il film riproduce, senza alcuna innovazione, una formula vecchia e stantia, solida sì, ma ormai troppo ripetitiva e poco al passo coi tempi.
Trailer del film Blackhat
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Vincenzo Palermo