Il The River Tour di Bruce Springsteen è arrivato in Italia e lo fa con uno show memorabile: un live che nella serata di domenica 3 luglio 2016 ha visto ancora una volta l’intero stadio di San Siro – circa 60mila persone – cantare, saltare e ballare sulle note di pezzi storici quali Badlands, Out in the Street o Born to run e poi magicamente, quasi misticamente, azzittirsi su brani profondi e introspettivi come Independence day, Point Blank, The River. Una setlist tra le più belle, almeno sino ad ora, dell’intero tour europeo, con ben 14 pezzi tratti dall’album che dà il titolo al tour, trentacinque brani complessivi (36 se contiamo anche il pre-show delle 17) e almeno sei chicche di quelle che rendono un concerto davvero speciale. Un mix di grinta e poesia, di divertimento ed emozione, di coinvolgimento e ammirazione. Perché la prima delle due date milanesi – la seconda è in programma per martedì 5 luglio, mentre il 16 luglio sarà la volta del Circo Massimo di Roma – è stata proprio quello che ci si aspettava: un nuovo, rinnovato, forse rafforzato atto d’amore tra Springsteen, come sempre accompagnato sul palco dalla fidata E Street Band, e quella che lui stesso ha definito the best audience in the world.
Un pubblico, quello di San Siro, che deve come sempre divertirsi e ballare ma che merita anche, e questa forse è la novità rispetto al concerto di tre anni fa, alcuni regali non troppo scontati: una scaletta che accanto a pezzi sempre presenti – da Born in the USA a Tenth Avenue Freeze-Out, passando per Hungry Heart e Dancing in the dark – ha incluso brani di quelli che un vero fan del Boss desidera poter ascoltare. Le parole di Independence day, «prima canzone – così ha detto lo stesso Bruce Springsteen – che ho scritto su padri e figli» fanno commuovere l’intero Meazza, così come quelle drammatiche, senza speranza, di una perfetta Point Blank, con una intro piano-piatti che ha creato l’atmosfera necessaria. Le storie di un’America ingiusta, dura, di precarietà, di amori finiti e sogni infranti scorrono sulle note anche di The River (accompagnata da innumerevoli luci tra il pubblico) o Death to My Hometown e sfociano nel grido di rabbia di tutto San Siro, che con The Promised Land e, soprattutto, Badlands dà voce alla voglia di riscatto. Un tuffo nelle tematiche care al Boss che lascia spazio anche ad altre inaspettate chicche; su Trapped il coinvolgimento è altissimo: le ottime luci sul ritornello, lo stadio in un’unica voce, e poi di nuovo il raccoglimento sulle strofe, in uno spettacolo memorabile; e poi ancora la bellissima Drive all night e l’epica Jungleland, un vero film che scorre mentre il pubblico è in religioso silenzio, attende di ascoltare l’assolo di sax che fu bandiera di Clarence Clemons e che ora, a cinque anni dalla scomparsa di Big Man, il nipote Jake sa interpretare con dedizione, emozione e bravura. C’è spazio anche per Because the night, di grande impatto dal vivo, per Lucky Town e The Rising.
E poi, come in qualsiasi live di Bruce Springsteen che si rispetti, pezzi che fanno divertire: My love will not let you down, Sherry Darling, You Can Look (But You Better Not Touch), Ramrod e una decina di minuti di Shout sul finale, solo per citarne alcuni, trasformano San Siro, persino gli anelli, in una grande pista da ballo. Trentacinque brani, ventisette nella prima parte e altri otto di bis, cui il Boss ha voluto aggiungere, intorno alle 17, un inaspettato pre-show acustico di Growin’ up, giusto per dare l’idea di quello che sarebbe successo in serata. Poco meno di quattro ore di concerto chiuso, come nel 2013, da una commovente versione chitarra-armonica di Thunder Road. Un concerto che, pur con un’acustica e un suono non sempre perfetti, non ha tradito le aspettative: Dreams are alive tonite, così recitava, questa volta, la grande coreografia che ha accolto Springsteen al suo ingresso sul palco di San Siro. Un auspicio che si è tramutato in realtà.