Bruxelles, gli attentati al cuore d’Europa: l’analisi

Un nuovo 11 settembre, un nuovo 7 gennaio, un nuovo 13 novembre. Ancora attentati e stragi, stavolta a Bruxelles, nel cuore dell’Europa. Non ci sono ancora notizie definitive. Tutto si è svolto tra le otto e le nove di questa mattina: tre attentati si sono susseguiti all’aeroporto Zaventem e in una stazione centrale della metropolitana, quella di Maelbeek. Ci sarebbero 34 morti (ma, purtroppo, la cifra può salire), 11 in aeroporto e 15 nella metro, ai quali si sommano 130 feriti (si parla anche di italiani). C’è già una rivendicazione da parte dell’Isis, ma le autorità stanno cercando di capire se sia attendibile o meno. Tutta Bruxelles e il Belgio intero sono in stato di allerta massima e il mondo tiene il fiato sospeso. Un nuovo attacco subito dopo l’arresto di Salah Abdeslam, avvenuto qualche giorno fa nella capitale belga. Salah ora vuole collaborare, di certo ha valide informazioni, mentre la Francia ne chiede l’estradizione. Nessuno sa ancora in quale Paese quest’uomo verrà giudicato, l’importante è che questa collaborazione non diventi una sorta di scudo protettivo e allo stesso Abdeslam non venga data la possibilità di manipolare, con le informazioni di cui è in possesso, la sua sorte o le vite degli altri. Questi nuovi attentati di Bruxelles ci mettono, ancora una volta, di fronte al muro dei nostri silenzi, del nostro buonismo e del politicamente corretto che ci fa stare a posto con la coscienza. L’angoscia e la paura che tutti proviamo in questi momenti non dovrebbero seguire fasi alterne, dal panico alla noncuranza fino alla minimizzazione, bensì stabilizzarsi nel buon senso e nell’azione mirata. Prendiamo la strage di Charlie Hebdo; dopo alcuni mesi il dolore era scivolato via dai media e dall’opinione pubblica, al punto che alcuni si chiesero perfino se le vignette del giornale satirico non fossero troppo esplicite, o addirittura volgari. Insomma, se i giornalisti non se la fossero cercata, per essere franchi, in barba ai principi di libertà d’espressione che (ancora) vigono in Occidente. Questo è il primo errore da evitare: è normale che televisione e giornali si occupino di notizie sempre nuove, spostando l’attenzione su altri soggetti. Siamo noi individui a non dover dimenticare, sempre noi a dover imparare, di nuovo noi a dover riflettere. Nessuno lo farà al posto nostro. Non si tratta certo di vivere in perenne ansia, piuttosto di informarsi costantemente, di scavare e selezionare le notizie. La società tende a dimenticare, noi come singole unità dovremmo fare in modo che questa ricordi e non vi siano possibilità di fuga, né attenuanti. Pensiamoci: se diventiamo un popolo in grado di riflettere in modo critico, senza sconti né buonismi di facciata “buoni” solo per un thè in qualche salotto, saremo in grado di difenderci, di capire quando l’accoglienza e l’integrazione vengono usate contro di noi, rivoltate contro di noi per schiacciarci, oppure manipolate in nome del politicamente corretto che, davvero, uccide la diversità e la libertà. Se non riusciamo a capire questo, siamo condannati a vivere in uno stato di perenne allerta.

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Del resto non è un caso che gli ultimi attentati di matrice islamica, soprattutto in Europa, colpiscano determinati obiettivi come un aeroporto, la redazione di un giornale, la stazione di una metropolitana, un teatro. Tutti posti simbolo di libertà di movimento, di pensiero, luoghi di svago, di vita. Lo sappiamo già, eppure non ci entra davvero in testa. Il terrorismo islamico (e il terrorismo in generale) mira a spaventare, a farci arretrare rispetto alle nostre posizioni (conquistate a caro prezzo) sui diritti umani. In soldoni a farci modificare la quotidianità in base a ciò che vuole chi ci terrorizza. In questo modo diventiamo schiavi di noi stessi, costruendoci da soli delle prigioni magari sicure, ma pur sempre prigioni. Se imparassimo a pensare e ad agire di conseguenza, capiremmo che accogliere, aiutare non significa sgretolare la nostra identità per evitare di “offendere”. Questa è un’altra gabbia edificata sull’estrema correttezza ormai deviata dalla base iniziale della tolleranza. La questione dell’integrazione e della migrazione va risolta tanto in Europa quanto nei Paesi arabi ormai privi di governo legittimo (un nome “a caso”, la Libia). Siamo arrivati al punto in cui ci troviamo anche a causa di scelte politiche europee poco lungimiranti, le quali hanno offerto ai capi del terrorismo il disordine di cui avevano bisogno per far attecchire le loro idee folli. Abbiamo bisogno di governi solidi sia in Occidente che nel mondo arabo-islamico (le classi politiche, nel bene e nel male, sono lo specchio di una nazione), capaci di studiare una strategia, coesi e applicarla fino in fondo. Se il messaggio non è chiaro, meglio ripeterlo: l’Isis o, comunque, il terrorismo islamico in genere, non si fermerà davanti a nulla. Il suo scopo è chiaro e la debolezza europea, figlia di Paesi litigiosi, ambiziosi, “dispettosi” (eh già, ci facciamo anche gli sgambetti tra di noi) è un chiaro segnale del fatto che, secondo queste “menti” malvagie, siamo corrotti e, dunque, non meritiamo di esistere. A ciò si sommano situazioni storiche e sociali che, pian piano, ci stanno facendo avvicinare al punto di rottura. Cosa possiamo fare, in poche parole? Su quali punti potremmo basarci? Vediamo…

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  1. Comprendere che dare aiuto non è sinonimo di sottomissione e cercare di salvaguardare tradizioni e identità non fa rima con razzismo. Chi lo sostiene è in malafede, oppure ha subìto il lavaggio del cervello. Precisazione: il concetto di integrazione, il cui valore nessuno nega, non ha nulla a che vedere con l’autocensura e la censura, bensì con l’equilibrio tra i popoli. Esistono vari “gradi” di integrazione, i quali oscillano in base al periodo storico e alle situazioni politiche e sociali che si presentano. L’Europa può studiare e attuare un piano di accoglienza per chi davvero ne ha diritto, ma dovrebbe sviluppare, parallelamente e non da sola (qualunque riferimento agli Stati Uniti, alla Russia e alle nazioni del Vicino e Medio Oriente non è casuale) un piano per riportare l’ordine in Paesi come la Siria o la già citata Libia, mettendo da parte le beghe di “condominio”.
  2. L’Italia da sola non può gestire la questione dell’immigrazione. Non abbiamo né sufficiente spazio, né abbastanza risorse (se è per questo neppure l’Europa tutta). Insomma, o l’Europa si compatta, oppure qualche dubbio sulla sua natura, prima o poi, sorgerà spontaneo (per dirla tutta è già sorto).
  3. Dovremmo imparare, noi singoli cittadini, a non farci travolgere da un’ondata emotiva destinata a scemare nel tempo. La nostra “memoria corta” ci porta a rimandare l’azione fino ad abbandonarla del tutto.

Non è più tempo di “guardare al nostro orticello”, perché abbiamo un orto molto più grande da preservare, affinché continui a crescere nel nome dei veri scambi culturali e della libera opinione. Solo così non saremo più costretti a sentire notizie di morte e, oltre al danno la beffa, le voci di quanti si ostinano a sostenere che, dopotutto, ce la siamo cercata perché non abbiamo la grazia di smettere di parlare e di credere nella libertà.

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