«L’unico carcere che serve e funziona è quello che riguarda i detenuti mafiosi». Non lo scrive purtroppo un polemista, ma Sebastiano Ardita, già Direttore del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) ed attualmente Procuratore Aggiunto del Tribunale di Messina. Subordinando un’indubbia talentuosa scrittura ai fatti, in Ricatto allo Stato (Sperling &Kufler) offre la propria esperienza di (giovane) magistrato, sulla presunta trattativa tra Stato e Mafia, sul 41 bis, e sui carcerati, dove il racconto personale è al servizio di una storia (criminale, politica e giuridica) d’Italia. Con sensibilità, sguardo (auto)critico, e quello che un tempo si chiamava ”il senso dello Stato”, lo stesso che porta a salvare la vita a Totò Riina durante un infarto, o a trasferire i detenuti dell’Aquila nel carcere di Spoleto, durante il terremoto del 2009. Un libro che andrebbe letto a scuola, e a casa.
Come è cambiata la pena detentiva, nella legge 354 dell’Ordinamento Penitenziario dall’art.90 (1975) all’art.41 bis (1986-92)?
«La differenza sostanziale sta nel fatto che il 41bis è oggi un provvedimento individuale sottoposto a controllo giudiziario, mentre l’art. 90 non lo era. Oggi è molto difficile che qualcuno vada al 41bis per errore, mentre l’art. 90 poteva essere applicato sostanzialmente a chiunque, in base ad una scelta unilaterale dell’amministrazione penitenziaria.»
Il 41 bis dal 1992 al 2012 ha avuto un mucchio di critiche internazionali: Amnesty International, la Corte Europea a Strasburgo, persino il potere giudiziario degli USA (quello di Guantanamo o Abu Ghraib), rifacendosi all’Onu: perché?
«Il 41bis prevede una restrizione degli spazi di libertà prevista dalla legge e giustificata in modo specifico per ciascuna delle singole misure adottate. Altri stati, quando hanno problemi di sicurezza, vanno per le spicce: comprimono la libertà residua dei detenuti, fino a farla sparire senza lasciare tracce né nella legge né negli atti ufficiali. L’Italia rispettando le regole ha reso ufficiale e trasparente il regime di massima sicurezza, per questo viene criticata.»
A proposito di Bagarella e Santapaola scrive che «non rinunceranno mai a vivere e a morire da mafiosi». L’art. 27 della Costituzione, sul valore rieducativo della pena, dunque per loro non vale?
«La risposta è semplice: la rieducazione è inconciliabile con l’essere mafiosi. Un mafioso che rimanga tale – e non rinneghi in radice la subcultura violenta ed arbitraria che caratterizza quel mondo – può solo fingere di partecipare all’opera di rieducazione, per ottenere lo sconto di pena. L’ appartenenza ad una organizzazione di tipo mafioso, che spesso ha basi anche familiari, comporta l’assunzione di vincoli pressoché inscindibili. Chi sta nei gradini più bassi non ha la forza di uscirne; chi sta al vertice non ha la forza, o la voglia, di rinunciare a quel falso prestigio che gli è attribuito. Ed è questa è l’unica vera causa della irredimibilità dei mafiosi.»
Daniel Agami [email protected]