Il concerto del 1974 al Wembley Stadium di Londra con Crosby, Still, Nash & Young durante il tour migliore della loro carriera. Quello di Leonard Cohen alla Royal Albert Hall in cui l’artista concesse ben 12 bis. L’esibizione dei Grateful Dead che iniziò alle 19 e a mezzanotte doveva ancora finire. Piergiorgio Caruso ha visto con i suoi occhi questi e mille altri eventi. Nel frattempo, studiava Radiologia in giro per l’Italia tra Firenze, Modena e Napoli. Ma questo non gli ha impedito di raccogliere e collezionare dischi, foto, manifesti, riviste e fumetti che oggi fanno parte del Museo del Rock di Catanzaro, unico nel suo genere in Italia, di cui è ideatore e curatore. Caruso, assieme al suo staff composto da Caterina Fittante, Tiziana Procopio e Jessica Rafele, affianca alla professione di medico quella di studioso e ricercatore di musica e il Museo del Rock di Catanzaro rappresenta la realizzazione di un sogno nato tantissimi anni fa, quando dal suo primo vinile acquistato negli anni ’60 decise che un giorno la sua città avrebbe avuto un luogo dove fermarsi e ammirare il primo singolo di Lou Reed del 1958, il manifesto “sbagliato” del primo Woodstock del 1969, i 45 giri dei Creation. Oppure le decine di manifesti originali affissi alle pareti di Tomorrow, David Bowie, Love, Sex Pistols, Damned, Santana, Beatles e Stones. Fino a quello dell’ultimo concerto di Jimi Hendrix, fatto 12 giorni prima della sua morte. Una carrellata di cimeli e oggetti rari che dal 2011 fa del Museo del Rock di Catanzaro una preziosa istituzione culturale a livello nazionale. Abbiamo incontrato Caruso all’interno del “suo” museo, circondati dal brandello di un vestito di Elvis e alcuni 45 giri di Jerry Lee Lewis e Gene Vincent e gli abbiamo chiesto di raccontarci com’è andata.
Dottor Caruso, cominciamo dall’inizio. Com’è nata l’idea del museo del Rock?
Questo museo esiste dal 2011, ma la storia è iniziata quando ho comprato il mio primo Lp, mi pare fosse il 1967. In quel momento mi dissi “devo comprarne tanti altri, perché un giorno ne farò un museo”. Altrimenti che ci avrei fatto con tutti quei dischi? Inoltre ho cominciato a collezionare anche riviste (alcune delle quali non ho mai letto!) e manifesti, che adesso vedete qui attaccati alle pareti.
E quanto tempo ci ha messo a realizzare il suo progetto?
Beh, Roma non è stata costruita in un giorno! Molti dei dischi che possiedo si trovavano ovviamente nei negozi, dove c’erano anche quelli di importazione americani e inglesi. Poi a un certo punto è cominciato il mercato del collezionismo musicale. Per i manifesti, invece, è stato molto più difficile perché non si trovavano facilmente e ho cominciato a collezionarli a partire dagli anni ’80. In Italia, comunque, una collezione del genere di locandine non esiste, questo glielo posso garantire. Per trovare qualcuno che ne possiede una simile bisogna andare in California o in Inghilterra.
E li ha trovati tutti in Italia?
Non che abbia viaggiato tantissimo, ma ho girato abbastanza e soprattutto mi sono messo in contatto con altri appassionati, collezionisti o semplicemente amici.
Quanti dischi sono esposti nel museo?
Francamente non li ho contati! Di certo quelli che vedete sono i più importanti della mia collezione, ma rappresentano una minima parte perché quelli che ho a casa sono un’infinità! I manifesti invece ci sono quasi tutti.
E con quale criterio li ha scelti?
In base all’importanza storica e artistica. Poi anche affettiva, ovviamente. Questi qui sono tutti figlioli miei! Ce ne sono alcuni rarissimi, come quello di Jack London and the Sparrows (lo indica alla nostra sinistra, ndr), che sono gli Steppenwolf nel periodo in cui erano ancora in Canada. Quando è venuto qui il mio amico Franco Brizzi (collezionista, mercante e critico musicale di Roma, ndr) mi ha detto: “Non solo non ce l’ho mai avuto, ma non lo avevo mai visto!”.
Ci sono altri pezzi rari nel Museo del Rock?
Il disco dei The United States of America, la cui busta è più preziosa del disco in sé. Un 45 giri dei John’s Children di stampa tedesca, famoso perché loro sono nudi in copertina. Quello degli Analogy in cui sono nudi anche loro, con la bellissima Jutta Nienhaus che spicca su tutto! Poi su quella parete laggiù c’è un manifesto che compare in una scena di “Blow Up” di Antonioni, quella in cui ci sono gli Yardbirds che suonano e David Hammings, il protagonista, che corre lungo un corridoio. A un certo punto si può notare la locandina. E’ stata una delle ultime che ho trovato perché non era di facilissima reperibilità. E poi anche il disco de Le Stelle di Mario Schifano, “Dedicato a…”, del 1967 e la cosiddetta “Butcher Cover” dei Beatles, del ‘66. Qui dentro, il 99% del materiale esposto è roba mia.
Quali attività svolgete qui dentro?
Nella vecchia sede del museo abbiamo organizzato diversi incontri e ascolti guidati raccontando di volta in volta la storia di un disco, inquadrandolo e contestualizzandolo storicamente. Sono uscite fuori delle bellissime serate. Questo museo nuovo vuole essere ancora più ambizioso, nel senso che oltre a parlare noi in prima persona abbiamo intenzione di invitare tanti ospiti illustri. Già poche settimane fa è venuto Gianni Dall’Aglio, lo storico batterista dei Ribelli. Ma siamo in contatto con molti cantanti e musicisti dell’epoca d’oro del rock, anni ’60-’70. Da settembre in poi faremo una programmazione più dettagliata.
Sul Guestbook all’ingresso ho letto la firma di Awana Gana (storico conduttore radiofonico e televisivo). Ma era proprio lui?
No no, era uno sfottò! Un amico che prendeva in giro un altro amico che negli anni ’80 si faceva chiamare “Awana Gana”! Poi se passa quello originale ci fa piacere, anche se non so che fine abbia fatto, ormai avrà una settantina d’anni e sarà molto poco “Awana”!
Il museo come è strutturato?
Intanto avrebbe l’ambizione, per sommi capi, di illustrare la storia e l’evoluzione del rock. Si parte dal secondo piano, da Elvis Presley e dagli anni ’50, passando per il blues, gli anni ’60, i ’70, scendendo poi fino ai ’90, più o meno. Più si scende, più si peggiora! (ride). Si finisce con i Nirvana, i Soundgarden, gli Oasis.
Anche se poi, alla fine, ci sono due grandi manifesti dei Pink Floyd.
Quelli li abbiamo messi lì perché non c’era altro spazio nel loro settore. Diciamo che il museo finisce cronologicamente nella penultima parete. L’ultima, invece, può essere letta come un “ricordiamoci come eravamo”!
In conclusione, cosa pensano i suoi colleghi medici del radiologo-rockettaro?
Qualcuno che mi capisce c’è ed è bendisposto. Però in generale sono tristi 60enni sul viale del tramonto!
Paolo Gresta