Chris Stevens parlava l’arabo ed era un esperto delle questioni mediorientali. Aveva rischiato la vita al fianco dei ribelli quando lottavano per la caduta del regime di Gheddafi e poi era stato nominato ambasciatore Usa in Libia. «Un grande momento per questo Paese», aveva dichiarato il giorno del suo insediamento. Obama ha definito terribile il fatto che sia morto a Bengasi, quella stessa città che aveva contribuito a salvare, e ha chiesto giustizia per il suo assassinio. L’attacco, giunto in piena campagna elettorale americana, suscita interrogativi sul lavoro dell’intelligence americana mentre Romney, il candidato repubblicano alla Casa Bianca, non ha perso l’occasione per criticare l’operato del presidente e metterne in discussione la capacità di gestire i rapporti con il Medioriente dopo la Primavera araba.
L’ambasciatore americano in Libia, Chris Stevens, è rimasto ucciso l’11 settembre 2012 nell’assalto contro la sede di rappresentanza Usa a Bengasi, assieme a un funzionario e due Marines. Il diplomatico, morto soffocato mentre tentava di scappare, era arrivato nel pomeriggio nella capitale della Cirenaica per raccogliere gli umori alla vigilia della nomina del nuovo premier libico, prevista oggi. Stevens aveva un curriculum perfetto per la sua missione. Nato in California nel 1960, aveva studiato a Berkeley e poi all’Hastings College e al National War College. Quando aveva 23 anni era entrato nei Peace Corps, insegnando inglese in Marocco. Allora era nata la sua passione per il Medioriente e aveva cominciato a studiare l’arabo. Aveva cominciato il suo mandato diplomatico a Tripoli lo scorso 26 maggio, subito dopo la fine del regime di Gheddafi. Durante la cruenta guerra civile che aveva portato all’uccisione del dittatore libico aveva svolto il ruolo di rappresentante americano presso il Consiglio nazionale di transizione. Suoi precedenti incarichi diplomatici lo avevano visto impegnato sempre in Africa e anche nel Medio Oriente. Era stato inviato a Riad, al Cairo, a Damasco e a Gerusalemme. Stevens è il primo ambasciatore americano assassinato dal 1979, l’ultimo aveva perso la vita in Afghanistan.
Durissima la reazione di Washington che ha mandato due navi da guerra in Libia come «misura precauzionale». Le iniziative militari, ha detto il portavoce del Pentagono, George Little, senza riferirsi in modo specifico alle navi, sono «non soltanto logiche, date le circostanze, ma anche improntate a prudenza». Da Washington si parla di atto «oltraggioso», e soprattutto, di almeno 200 marines che sono in viaggio per la Libia, come altre unità di élite, chiamate ad assicurare la sicurezza a Tripoli e Bengasi, come in Afghanistan ed Egitto. Dietro l’attentato si sospetta la presenza di al Qaeda anche se gli Usa non si sbilanciano ancora sulla matrice dell’attacco. Intanto, è stato annunciato il ritiro dalla Libia di tutto il personale americano, mentre per le indagini scendono in campo Cia e Fbi, in stretto coordinamento con le autorità libiche.
Tutto è iniziato con la protesta per un film anti-Maometto al Cairo, con dimostrazioni violente sfociate nell’assalto all’ambasciata nella capitale egiziana. A Bengasi è accaduto qualcosa di simile benché la dinamica degli eventi non sia ancora del tutto chiara: secondo numerosi testimoni, una dimostrazione contro il film su Maometto è stata l’occasione per dar vita a un vero e proprio assalto, a colpi di armi automatiche, Rpg e mitragliatrici pesanti. I miliziani di Ansar al-Sharia, partigiani della legge islamica, avrebbero giocato un ruolo fondamentale nella morte dell’ambasciatore e dei suoi uomini. La setta estremista ha negato un coinvolgimento nell’attacco, congratulandosi però con coloro che hanno portato a compimento l’attacco «per difendere il profeta Maometto». Intanto, da tutto il mondo è arrivata la condanna unanime dell’attacco all’ambasciata Usa in Libia.
Piera Vincenti