David Bowie, gli album e la carriera del Duca Bianco

Lui è David Bowie, ma si chiama David Robert Jones. O se preferite, Ziggy Stardust. Duca Bianco. London Boy. Oppure Man of Words, Aladdin, Man of Music, Halloween Jack e chi più ne ha, più ne metta. Camaleontico, androgino, alieno e terrestre, rockstar, pittore.

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Uno che a gennaio soffierà su 68 candeline e che dagli anni ’60 a oggi conta decine di album pubblicati, milioni di copie vendute, un impatto e un’influenza incalcolabili sul modo stesso di intendere la musica. Una carriera ricca di successi che la Parlophone celebra con la pubblicazione di “Nothing Has Changed”, la raccolta che per la prima volta mette insieme il meglio che l’artista britannico ha inciso dal 1964 al 2014. 5 cd di cui 2 in edizione deluxe, un doppio vinile, download digitale dei brani e un artwork prodotto da Jonathan Barnbrook in cui ogni formato ha un’immagine diversa, con il tema comune di Bowie che si guarda allo specchio. David-BowieNon solo un semplice greatest hits, quindi, ma un lavoro che copre l’intera esperienza di vita di una persona. Non una chicca per collezionisti, ma un’opera fondamentale per addentrarsi nel mondo del Duca dai suoi esordi fino ad oggi, scoprendo e studiando l’evoluzione, lo sviluppo, le cadute e le rinascite di uno dei più grandi artisti che il mondo abbia mai partorito.

Avrebbe fatto l’attore, Bowie, se non fosse riuscito a sfondare con la musica. E poco ci è mancato. Gli esordi infatti non sono stati scintillanti. “David Bowie” esce nel 1967 e pur facendo una buona impressione, resta nella memoria come un disco non particolarmente brillante. Sorte simile capita anche a “Space Oddity” del ’69 che lancia certamente la carriera di David Bowie grazie al grande successo della title track, ma che nel complesso vende non più di 5000 copie in un anno. E neanche “The Man Who Sold the World” del 1971 fa il botto, considerando che ci si ricorderà di questo disco solo grazie alla cover dei Nirvana inserita in ”Mtv Unplugged in New York” del 1994. Il disco però ha il merito di imporlo come icona glam e star eccessiva, a partire dalla splendida copertina “preraffaellita” in cui Bowie campeggia in abiti femminili e capelli lunghi, adagiato su un sofà. E’ “Hunky Dory”, tuttavia, a raccontare il passaggio definitivo a una dimensione artistica pienamente riconoscibile.

David-Bowie-545L’album, che contiene “Life on Mars?” e “Oh! You Pretty Things”, mescola post-moderno, esoterismo, sfumature di un pop che con Brian Eno arriverà alla sua forma definitiva ed evidenti omaggi a Bob Dylan e ad Andy Warhol. Tutti indizi che portano direttamente al suo capolavoro del febbraio 1972. “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” è a oggi una delle pietre miliari del rock di tutti i tempi, dove Bowie raggiunge l’apice attraverso il suo alter-ego alieno dai capelli rossi, con il quale porta a un livello inedito la riflessione sul rock stesso, sull’alienazione della rockstar e sul rapporto che essa ha con il suo pubblico, fino all’inevitabile declino. Il disco vende 7 milioni e mezzo di copie, Bowie “ucciderà” successivamente Ziggy il 3 luglio del 1973 sul palco dell’Hammersmith Odeon di Londra, dando vita alla genesi della prossima mutazione che avviene con la pubblicazione di “Aladdin Sane” dello stesso anno (del ’73 è anche “Pin Ups”, composto da sole cover). Nonostante egli abbia dichiarato che l’album rappresenta “il viaggio in America di Ziggy”, si tratta di un lavoro incentrato sul concetto del fallimento e sulla vacuità del successo. Sono gli anni in cui Bowie trova in Iggy Pop un alleato fedele e un’anima affine, fornendogli suggerimenti preziosi per “Raw Power” e producendo tra l’altro “Transformer” di Lou Reed. “Diamond Dogs” arriva nel 1974 e segna lo stacco dal mondo glam. Il disco vende molto bene negli Stati Uniti e impone il nuovo personaggio di Halloween Jack, un gigolò reietto che si muove all’interno della città immaginaria di Hunger City. “Rebel rebel” è il pezzo di punta.

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A marzo del 1975 esce “Young Americans”, un album per la prima volta imperniato sul soul. E’ in questa fase che Bowie stringe amicizia con John Lennon e dà vita alla cover di “Across the Universe”, scrivendo poi assieme a lui il brano “Fame”. Per “Station to Station” (1976), l’artista inglese compie la sua ultima trasformazione diventando il “Thin White Duke”, il Sottile Duca Bianco emaciato e scavato dall’abuso di droga e dall’allontanamento dalla sua compagna Angie. E’ il periodo più buio e difficile, per David Bowie. Che però funge da spinta propulsiva per la cosiddetta Trilogia Berlinese che comprende “Low”, “Heroes” (scritto da Bowie assieme a Brian Eno e Robert Fripp) e “Lodger”, in cui prevale la cosiddetta “tecnica dell’errore pianificato” per cui un errore ripetuto per tre volte diventava un arrangiamento. “Scary Monsters” del 1980 è considerato l’ultimo grande disco dell’artista, in cui prosegue la proficua collaborazione con Fripp e che include “Ashes to Ashes”, “Teenage Wildlife” e “Because You’re Young” con Pete Townshend alla chitarra. Rispetto alla Trilogia, debole a livello commerciale, il disco vende molto bene e la critica lo accoglie assai positivamente. “Let’s Dance”, “Tonight” e “Never Let Me Down” sono ottimi prodotti da classifica, ma irrilevanti a livello artistico.

Gli anni ‘80 si ricordano infatti più per gli impegni cinematografici di Bowie (“Absolute Beginners”, “Labyrinth” più alcuni camei con Scorsese e Lynch) che non per la musica. Il Duca torna nel 1993 con “Black Tie White Noise” e “The Buddha of Suburbia”, ma è “1. Outside” del 1995 a rilanciarlo per davvero.

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Guarda caso, proprio il disco che segna il ritorno di Eno dietro al desk di regia. E il lato artistico riprende a respirare. Si incontrano praticamente tutti i generi musicali mescolati in un sapiente meccanismo post-moderno: l’Industrial di “Hallo Spaceboy”; il funk di “I Have Not Been To Oxford Town”; la new wave della title track. Bowie insomma si tiene al passo coi tempi e per i suoi 50 anni, nel 1997 si regala “Earthling”, disco in cui si lancia sui territori della Jungle e dell’Industrial senza snaturare la propria scrittura, sempre fedele alla “canzone”.

Dopo “Hours…” del ’99, il Duca entra nel nuovo millennio con “Heathen” (2002), che segna un buon compromesso tra il Bowie del passato e quello di oggi, in cui è padre della piccola Lexie e compagno di Iman Abdulmajid. “Reality”, uscito l’anno successivo, segue la falsa riga del predecessore e a sorpresa il “Reality Tour” diventa anche uno dei più seguiti del 2004. Infine, a quasi dieci anni di distanza, esce l’ultimo “The Next Day”, album che riproduce la copertina di “Heroes” ma con l’immagine di Bowie oscurata, per dare un senso sovversivo al disco in opposizione a quello più venerato in assoluto dai fan.

“Nothing Has Changed” ripercorre tutto questo e mette insieme il meglio del percorso artistico del musicista inglese, di uno che in 50 anni di carriera ha stregato intere generazioni di appassionati e di colleghi, venendo incluso nella ristretta lista delle dieci più influenti icone culturali inglesi viventi di “The Culture Show”.

Perché lui si chiama David Robert Jones, ma è e sarà sempre David Bowie.

Paolo Gresta

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