La trama e la recensione di “Due giorni, una notte”, l’ultimo film dei fratelli Dardenne con una straordinaria Marion Cotillard, eroina della nuova lotta di classe.
I fratelli Luc e Jean-Pierre Dardenne, cineasti belgi vincitori di due Palme d’oro a Cannes (con “Rosetta” nel 1999 e con “L’Enfant” nel 2005), sono poco inclini alle rivoluzioni rumorose, violente, nonostante raccontino, con rigorosa radicalità, i conflitti sociali contemporanei. Il loro è un cinema viscerale che colpisce duro parlando sottovoce, senza indulgere all’isteria dei sentimenti o alla morbidezza della retorica. Alla camera a mano indagatrice che rimanda ai pedinamenti zavattiniani dell’ “every man”, si concede in “Due giorni, una notte” la fisicità trasandata di Marion Cotillard, capelli scarmigliati e passo claudicante, l’azzurro degli occhi malinconici velato di tristezza. Espressione di un umanesimo dolente in cui non è più la parola a giudicare mettendo sotto accusa il sistema, ma è l’immagine, spesso decolorata e fuor di metafora, a dare il senso pieno del vuoto sociale circostante. L’attrice parigina, diva camaleontica a cavallo tra mainstream e cinema d’autore, si fa corpo violato per la veracità minimalista dei Dardenne, prosciugata dalla depressione che la rende dipendente dallo Xanax. Costretta a lasciare il lavoro a causa della malattia, scopre che la riassunzione è divenuta un miraggio: attraverso uno scaltro escamotage del capo Dumont e le perfide manipolazioni di Jean-Marc, è stata indetta una votazione tra i suoi colleghi che, tra un bonus di mille euro o il suo reinserimento nella ditta, hanno scelto la prima opzione. Spinta dal marito e dall’amica Juliette, Sandra avrà due giorni e una notte per convincere i lavoratori della fabbrica a votare nuovamente, recandosi da ognuno di loro per far valere le sue buone ragioni. Alla fine è tutta questione di numeri e di una disperata peregrinatio “porta a porta”. Ce lo dice il sistema capitalistico, il grande universo delle multinazionali e quello della piccola imprenditoria. A Sandra, per poter rimanere in fabbrica servono otto voti più uno e ai colleghi tocca rimanere senza bonus da mille euro. Nella guerra fra poveri, vince chi sopravvive. Dopo numerosi documentari sulla storia del movimento operaio belga, le cinéma vérité crudo e minimalista dei due fratelli si è rivolto, in stretta continuità stilistica, alla creazione di tableaux vivants in cui, all’evoluzione climatica del plot, hanno preferito una narrazione esemplare che nega la dialettica campo-controcampo e concentra l’attenzione sugli uomini e sulle loro tragedie individuali. Seguita dalla macchina da presa soprattutto di spalle e tre quarti, Sandra è vittima sacrificale e “figura christi” del martirio sociale a cui sono sottoposti i lavoratori sprofondati nell’inferno del precariato, degli impieghi in nero e dell’assenza di tutele sociali. In un percorso stilistico inaugurato con “Il ragazzo con la bicicletta” che si distacca parzialmente dalla sobrietà dei primi lungometraggi (“La Promesse” o “Rosetta”), “Due giorni, una notte” rappresenta l’approdo estremo, con pochi “rumors” di sottofondo e due sole canzoni-simbolo, di una struggente “poetica della soglia”: Marion Cotillard, meraviglioso cigno baudelairiano nel putrido serraglio, sosta sull’uscio della “generazione mille euro”, sfiora (con parole e sguardo dimesso ma sempre ipnotico) i colleghi a cui affida suppliche non sempre inascoltate, cerca compassione, ma trova anche empatia. Con tono mai edulcorato i fratelli Dardenne, lontani dalla violenta mise en scène del mondo del precariato (nel “Cacciatore di teste” di Costa-Gavras ad esempio) scelgono una via poetica e disperata per attestare il fallimento della società costituita dove la redenzione è conquista sofferta di pochi individui veramente liberi.
Vincenzo Palermo