Si definisce una «mina vagante» e in effetti Elena Arvigo lo è, tanto più per le tappe realizzate nel teatro indipendente conquistandosi con la lunga gavetta quella libertà che le permette di scegliere i lavori da portare in scena. Diplomatasi alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano sotto la guida di Giorgio Strehler (triennio 1996-1999), inizia a spaziare dal grande al piccolo schermo, senza dimenticare mai le tavole delpalcoscenico. Lavora con grandi registi anche internazionali come Eimuntas Nekrošius (“Il maestro e Margherita” di Michail Bulgakov), Alvis Hermanis (“Le Signorine di Wilko” di Jaroslaw Iwaszkiewicz), Jan Fabre (“The Holy Gangster” alla Biennale Teatro nel 2011) fino a “Mangia, prega, ama” con Julia Roberts per poi varcare i confini nazionali per girare due episodi di “Mental”. Con gli anni il desiderio di realizzare progetti propri si è fatto sempre più forte e lo spettacolo andato in scena al Teatro Out Off di Milano (dal 5 al 14 giugno 2015) ne è la dimostrazione. Ne “Il bosco” scritto da David Mamet – famoso per la sceneggiatura de “Il postino suona sempre due volte” (1981) – si mette a tema una coppia che fa i conti con se stessa, lasciando la città e “rifugiandosi” nella casa nel bosco. Abbiamo incontrato Elena Arvigo in occasione di questo debutto per addentrarci ancor più in questo testo, forse non molto conosciuto, e approfondire il suo modo di vedere e vivere il teatro.
“Il bosco” (1977) di David Mamet è stato il testo con cui ha debuttato alla regia, nel 2011, insieme a Valentina Calvani. Che cambiamento c’è stato in quest’edizione che firma da sola?
Allora accadde che dopo aver letto questa pièce, la proposi a Valentina che mi aveva diretta in “4:48 Psychosis” nel 2010. Io credo che bisognerebbe trovare nuove parole e che a farlo debbano essere gli attori che realizzano delle regie proprie – il che è diverso dallo stare all’interno della regia pensata da un altro, anche se si tratta di un maestro – o ricercano una personale poetica. In questa prospettiva parlerei più di progetti e appartenenze quando uno ha la necessità di raccontare una storia. A distanza di tempo, questo testo continuava a tornarmi in testa e perciò ho avvertito l’urgenza di riprenderlo, esigenza che si è si è sposata con la proposta della produzione di Cagliari, Bam Teatro, di rimetterlo in piedi. Rispetto al 2011 è cambiato l’attore (ora c’è Antonio Zavatteri, anni fa al mio fianco c’era Andrea Di Casa) e questo porta una poetica diversa. Anche se è rimasta la stessa scenografia, mi sembrava giusto rifare tutto da capo, riapprocciarmi come se fosse la prima volta, scegliendo di non tagliare nulla perché ho molto rispetto del testo (chiaramente qualche cambiamento rispetto alle didascalie può starci). All’epoca mi sembrava che questo testo parlasse di quell’amore sentimentale, adesso sento come se parlasse più di solitudine, dell’incapacità di farsi amare, di quanto sia difficile farsi del bene, stare insieme anche fisicamente. Forse con gli anni che passano diventa più chiaro il valore dei rapporti umani che resistono al tempo così come il significato delle cose, e poi mi sembra più evidente quanto l’amore spesso possa avere a che fare con l’idealizzazione ciò implica il non vedere la persona che hai davanti. Nel testo di Mamet trovo interessante proprio il discorso sulla rappresentazione che è, in fondo, il significato profondo del teatro: vedere una cosa ti aiuta a comprenderla meglio. Ne “Il bosco” ci sono le visioni, le proiezioni, le paure e i desideri che i protagonisti hanno ed è qui la difficoltà di questa drammaturgia perché da un lato devi avere consapevolezza di tutti questi elementi, dall’altro devi recitare tutto questo come se, in quell’istante, ne fossi inconsapevole, con una certa freschezza.
Il potenziale spettatore potrebbe aver letto che si tratta di un testo faticoso, Elena Arvigo, lei come lo catturerebbe e invoglierebbe alla visione?
Diceva James Hillman: «I rapporti falliscono non perché abbiamo smesso di amare, ma perché, prima ancora, abbiamo smesso di immaginare» e per me questo testo è stato ed è un esercizio dell’immaginazione come lo è ogni favola. Viviamo in tempi in cui siamo subissati di informazioni e quindi la nostra capacità di immaginare si è arrugginita. Anche se “Il bosco” mi mette sempre in crisi perché ti costringe ad affrontare delle paure, mi affascina proprio per il suo essere una bella prova e credo lo sia – in parte – anche per il pubblico, ha la stessa consistenza dei sogni grazie alle continue ripetizioni. Io spererei che in chi viene rimanesse un ricordo molto vago di questo spettacolo come quando ci si risveglia dopo aver sognato.
Quindi non vedrebbe in modo negativo la sensazione che il pubblico potrebbe provare di non poterlo focalizzare completamente?
Assolutamente no. È una pièce che ha troppi livelli e credo che vadano lasciati aperti altrimenti significherebbe condizionare troppo la lettura del pubblico.
Dopo queste date a Milano, lo riprenderete?
Sì, la prossima stagione in Sardegna e poi ci stiamo organizzando per la stagione 2016-2017.
Questo testo fa tornare in mente, con le dovute differenze, “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare. Che ne pensa?
Potremmo fare il parallelismo con questi amanti che si cercano e non si trovano perché non si riconoscono, anche se nel testo shakespeariano è ovviamente più onirico.
Ultimamente lei si è calata nei panni di diverse donne grazie ai testi di Grazia Verasani (“Maternity Blues”), Stefano Massini (“Donna non rieducabile” – Memorandum teatrale su Anna Politkovskaja) e ora di nuovo questo ruolo di Ruth scritto da Mamet. Quando lo interpretava mi ha fatto venire in mente alcuni momenti di “4:48 Psychosis” della Kane…
Io credo che ci siano dei punti di congiunzione tra i testi, anche a volte non dichiarati. Sicuramente la forza della Kane era nella sua follia, in quel mix di lucidità, intelligenza e sensibilità e, a tratti, Ruth la ricorda quando in alcune battute si sente rifiutata.
Nel corso dello spettacolo il suo personaggio ripete spesso che in quel luogo, il bosco, ci sta bene perché è puro; mentre Nick afferma: «Sono dentro questo buco». Unendo questi due momenti pensa che il teatro sia un buco “puro” da cui guardare al mondo?
Il testo è molto metateatrale. Il teatro è un luogo – come dice Ruth – in cui tutto è possibile e si possono vedere le cose per come sono veramente; però è anche un buco. Si tratta di un luogo in cui rappresentarsi – e questo comporta dei pericoli -, si fa insieme al pubblico e sarebbe bello riuscire a ricreare quello scambio quasi ritualistico. Io credo che il teatro debba essere un luogo pericoloso e in tal senso diventa un “buco”, mentre stare davanti alla tv è pericoloso, ma nell’accezione di anestetizzante. Penso che dovrebbe essere un luogo non solo di riconoscimento, che funge da specchio, ma che dovremmo farlo diventare noi più pericoloso, essere più intraprendenti nel metterci in gioco e con noi anche gli operatori e i distributori.
Se si tiene conto del percorso che ha intrapreso, in cui ha scelto di non essere più solo attrice, ma anche regista e talvolta produttrice, potremmo dire che lei si mette in discussione…
È un mestiere difficile da percorrere, anche per le piccole produzioni come può essere Bam che non ha sovvenzioni e a cui noi siamo grati per averlo voluto riprendere. Ripensando al discorso che facevamo prima, ti senti anche un po’ “punito” perché fai queste riflessioni, ma poi governano altre dinamiche. Io ho cercato e cerco la libertà, ma va da sé che ha un prezzo.
Quali sono i prossimi impegni di Elena Arvigo?
Continuerò a portare avanti non solo “Il bosco”, ma anche “Donna non rieducabile” (è notizia recente che, nella traduzione tedesca di Sabine Heymann, questo testo ha vinto il premio Eurodram 2015, nda), “4:48 Psychosis” e “Maternity blues”; poi sarò in scena al Teatro Vascello di Roma (dal 29 marzo al 3 aprile 2016) con “Yerma” di Federico Garcia Lorca, regia di Gianluca Merolli. Per quanto riguarda il cinema, invece, sarò protagonista de “L’incredibile storia della signora del terzo piano” diretto da Isabel Russinova.
Si ringrazia l’ufficio stampa dello spettacolo “Il bosco”, nella persona di Ippolita Aprile
Maria Lucia Tangorra