In occasione del compleanno di Elvis Presley, nato l’8 gennaio del 1935 e scomparso il 16 agosto del 1977, riflettiamo insieme sull’eredità che Elvis ci ha lasciato e su come egli abbia cambiato il mondo della musica: una vita vissuta da rivoluzionario.
Oggi Elvis avrebbe compiuto 80 anni. Elvis, sì. Senza cognome. L’unico al mondo che chiunque riconoscerebbe senza bisogno di capire di quale Elvis si parli, il solo che abbia attraversato le decadi mantenendo intatto il suo fascino, la potenza evocata dal suo nome, alimentando anno dopo anno la poderosa leggenda. Perché lui non era un Duca né un Baronetto.
Lui era il Re, il numero uno, il più grande di tutti. Quello che per la prima volta fece urlare migliaia di ragazzine americane, che scandalizzò benpensanti, politici, psicanalisti e sacerdoti col solo movimento del bacino, che con quella faccia da schiaffi e il sorriso “piacione” fece innamorare gli Stati Uniti prima e il mondo intero poi attraverso i suoi film, successo dopo successo. Elvis fu questo, certo. Ma molti dimenticano quanto questo ragazzo del Mississippi fece per la musica, rivoluzionando letteralmente i costumi di un’epoca, gli anni ’50, dove i teenager erano orfani di una figura di riferimento in cui identificarsi e l’America annaspava nella sua impasse di perbenismo. Non fu certo il primo bianco a cantare il rock and roll: tra il 1953 e il 1955 Bill Haley aveva già un ottimo successo con la sua proposta originale di country e r’n’b, ma era un trentenne un po’ stempiatello e grassoccio, lontano dal diventare un idolo per la gioventù a stelle e strisce. Elvis entra in scena a metà del 1954 con canzoni per la verità normalissime che non contenevano nulla di osceno o dissacrante.
Ma fu il “come” le cantava a far esplodere la bomba. Lontano dai soliti stilemi blues, country o gospel, Elvis porta in scena il rock and roll/rockabilly che finalmente scioglie i nodi delle inibizioni di un’intera generazione, fungendo da detonatore della più grande rivoluzione musicale della storia. Da quel momento prende vita un processo irreversibile di cui tutti, davvero tutti, sono debitori. Dai Beatles ai Led Zeppelin a David Bowie, “The Pelvis” è stato lo spartiacque tra un “mondo in bianco e nero e un altro in technicolor”, come disse una volta Keith Richards. E il giovanotto di East Tupelo riuscì in tutto questo senza mai mettere il piede fuori dagli Stati Uniti (escludendo sei concerti tenuti in Canada), diventando così un potente simbolo di nazionalismo americano tanto che il Presidente Jimmy Carter, dopo la scomparsa avvenuta il 16 agosto del 1977, affermò come “la sua musica e la sua personalità, fondendo gli stili del country bianco e del rhythm & blues nero, ha cambiato permanentemente la faccia della cultura popolare americana”.
Performer dirompente sul palco, Elvis accostò al clamoroso successo musicale (22 dischi registrati in poco più di vent’anni, 68 volte tra le Top 20 di Billboard, unico artista ad essere arrivato in testa alle classifiche in quattro decadi diverse con più di un miliardo di copie vendute in tutto il mondo) un’intensa attività cinematografica (più di trenta pellicole tra il 1956 e il ’69) che gli permisero di rastrellare fan in ogni angolo del pianeta, trasformandolo sempre di più in un’icona pop universale come la sola Marilyn seppe diventare. Ancora oggi, migliaia di persone prendono d’assalto Graceland, la casa in cui Elvis si trasferì nel 1957, meta di un pellegrinaggio continuo e appassionato di vecchi e nuovi fan. Ancora oggi, canzoni come “Jailhouse Rock”, “Love Me Tender”, “Hound Dog” o “Fever” passano per radio e sono coverizzate dagli artisti più diversi, da Madonna ai Mötley Crüe. E anche se in molti giurerebbero che lui sia ancora vivo, nascosto da qualche parte come d’altronde John Lennon, Jim Morrison e il vero Paul McCartney, quello che non morirà mai è la sua arte, la sua musica esplosiva e il suo carisma senza tempo, tipico delle leggende. Tipico di un Re.
Paolo Gresta