Ha pregi e difetti questo Fame – Il Musical messo in scena da Federico Bellone al Teatro Nazionale di Milano dal 7 aprile (le preview di rodaggio sono però iniziate il 31 marzo) fino al 1 maggio 2016. Innanzitutto è, abbastanza chiaramente, una scelta di titolo che si inserisce in un collaudato trend evidentemente inteso a rassicurare gli investitori che, in questo caso, in pieno stile U.S.A., fanno parte di un consorzio di 11 tra aziende ed enti. Un trend che sfrutta l’eco del successo di film anni ’80 o giù di lì: era il caso di Dirty Dancing, lo sarà di Footloose e più in là anche di The Bodyguard. Il target di pubblico che tenta di attrarre questo tipo di spettacoli, infatti, infinitamente più numeroso di quello che va abitualmente a teatro, è composto da circa-quarantenni che hanno sognato sulle note di canzoni diventate in seguito standard e che oggi lasciano il telecomando a casa solo se si aspettano di ritrovare le stesse identiche emozioni in scena. Detto questo e specificando che questo titolo (come del resto gli altri già citati) nasce proprio come una pura, semplice, commerciale operazione-nostalgia, dispiace un poco vedere lo stacco qualitativo rispetto all’eccellente (ma purtroppo economicamente infelice) Newsies allestito lo scorso anno nella stessa location e dallo stesso Bellone. E non stupisce quindi che il tentativo di riportare in scena la magia, i sogni, le lotte, i desideri dei ragazzi degli anni ’80 dell’omonimo film di Alan Parker che in un liceo di New York studiano e si preparano alla vita tanto quanto ad una carriera nello spettacolo semplicemente non riesca. Ma purtroppo nello specifico la cosa non è imputabile soltanto alla mancanza di ispirazione originale del testo ma anche ad un cast non sempre all’altezza. Ovviamente alcune lodevolissime eccezioni ci sono: Francesca Taverni, presenza magnetica, e il sempre centrato e convincente Luca Giacomelli Ferrarini dimostrano ancora una volta di essere due tra i nostri migliori artisti, e a loro si aggiunge anche qualche altro performer di livello come Michelle Perera (cantante bravissima: una voce potente che ha strappato una lunga ovazione a scena aperta), Roberto Tarsi, Natascia Fonzetti e Marta Melchiorre, ma il resto degli attori non decolla, a volte perché il ruolo non è incisivo e a volte perché è proprio il performer a sembrare ancora impegnato in un saggio di fine anno accademico più che in una produzione professionale in cui il saggio accademico è recitato. Sarebbe inutile e ingeneroso elencare a questo punto quei tre o quattro elementi apparsi più scarsi considerato che si tratta di giovani attori all’inizio di una carriera, ma una piccola annotazione polemica trovo sia invece assolutamente necessaria: far esibire con un evidente playback (non annunciato e non resosi necessario per motivi di salute) mentre tutti cantano dal vivo – certo: a secondo del proprio talento più o meno bene – un performer inadatto e chiaramente non versato nel canto (ma nemmeno nella recitazione) trovo sia scelta inspiegabile e poco rispettosa verso quella parte di pubblico capace di cogliere la differenza. Peggio di così si poteva solo immaginare una citazione ai Milli Vanilli o a “Cantando sotto la pioggia” in cui la voce registrata era addirittura quella di qualcun altro.
Si cambia “musica” invece quando si parla del team creativo di Fame – Il Musical: Marco Biesta (per i costumi), Hella Mombrini e Silvia Silvestri (scene) da tempo collaborano con Bellone e anche in questo caso hanno dimostrato di saper fare miracoli con un budget ridotto perché la maggior parte delle risorse sono state probabilmente destinate a promozione e pubblicità più che alla macchina scenica, mentre piacevole sorpresa sono state le belle coreografie di Gail Richardson e la direzione musicale di Steve Pritchett: adeguate e intelligenti le prime nello sfruttare al meglio i performer disponibili, del tutto ineccepibile la seconda. Chapeau. Malgrado poi sia stato oggetto di alcune perplessità in sala, ho personalmente apprezzato la scelta di posizionare il pubblico anche a lato e sul fondo della scena (del resto in America lo spettacolo era un Off-Broadway, genere che spesso sperimenta o ripropone situazioni teatrali “diverse”). Spiace un po’ che però la regia abbia poi finito per concentrarsi solo verso la platea. Lavorare a 360 gradi penso avrebbe aiutato il ritmo dell’azione che, di fatto, rivolgendosi comunque sempre e solo verso il boccascena, ha invece risentito della sistemazione anomala del palco. Lo spettacolo è finito con il tentativo di replicare la scena clou della pellicola in cui Irene Cara nei panni di Coco e gli altri studenti saltano sui cofani delle macchine in strada. Nel film era pura energia. Il gesto era provocatorio, rivoluzionario, era il simbolo di una generazione che esorcizzava ballando la paura del fallimento e del domani, il manifesto vibrante di un periodo. E degli applausi, all’assolo iniziale di chitarra che introduce la canzone premio Oscar e all’ingresso di un taxi d’epoca devo dire, per onor di cronaca, che ci sono comunque stati.
Questo mi ha portato a pensare quindi, in definitiva, che questo Fame – Il Musical sia in fondo uno spettacolo adatto esattamente per il tipo di pubblico per cui è stato concepito, capace di accontentarsi dell’interpretazione… del taxi nel ruolo di se stesso e di molta buona musica. Ma di certo io quando avrò nostalgia di quell’energia, di quelle provocazioni folli e felicemente disperate le cercherò nella memoria o magari direttamente nei volti dei ragazzi nel film di Parker. Mentre la magia teatrale che ha avuto Newsies tornerò a sperare di trovarla in un altro, diverso spettacolo in cui però le ragioni del cuore prevalgano o almeno si equivalgano a quelle del portafoglio.