In sala dal 12 marzo Foxcatcher, una storia americana di sport, sangue e follia. La trama e la recensione del film.
Riprendendo il titolo dell’autobiografia dell’atleta Mark Schultz da cui è tratto il film omonimo Foxcatcher, Una Storia vera di sport, sangue e follia, ci rendiamo subito conto che Bennett Miller, alla sua terza regia dopo il biopic su Truman Capote e L’Arte di vincere, ha scelto di raccontare, attraverso toni cupi e accenti drammatici, una vicenda ispirata a fatti reali, sanguinosa e delirante che mette in luce il lato oscuro dell’American Dream. Non ci sono solo eroi e patrioti sul suolo statunitense, anzi, il più delle volte, il nazionalista a tutti i costi e l’eroe non sono due figure che coincidono. Se possono allinearsi all’interno di parabole e saghe familiari, lo fanno solo nell’aura incontaminata del mito a stelle e strisce, nello spazio liminale di sogni (cinematografici e letterari) poi rovesciati in incubi patriottici. Ecco perché in Foxcatcher compaiono personaggi antieroici per definizione, grazie ai quali la tragedia può compiersi e attraverso i quali si può riscrivere la storia (nera) di una Nazione. John Du Pont incarna perfettamente lo stereotipo sopracitato (e gli rende onore la recitazione sopra le righe di Steve Carell, nascosto dietro un make up che lo invecchia rendendolo irriconoscibile), rampollo di una delle famiglie più influenti degli Stati Uniti di discendenze ugonotte e poi trapiantata nel tessuto industriale degli States. Ossessionato dalla passione per le armi e la lotta libera, il miliardario contatta i due fratelli Schultz, Mark e Dave, campioni di wrestling affamati di successo. Il primo dei due (un sorprendente Channing Tatum), il più piccolo e il più ambizioso, accetta di trasferirsi nella tenuta dei Du Pont in Pennsylvania per assecondare il piano “egemonico” del mentore: fare parte del Team Foxcatcher e vincere nel 1988 le prossime Olimpiadi di Seoul. Dave (Mark Ruffalo) rinuncia, intenzionato a preoccuparsi solo della famiglia. Il rapporto tra Mark e John, costruito su un delicato equilibrio di sottomissione e manipolazione psicologica, farà naufragare il progetto sportivo in tragedia conclamata, coinvolgendo, in un triangolo perverso, anche il fratello maggiore. Gli elementi per ascrivere Foxcatcher a prototipo negativo del Grande Romanzo Americano ci sono tutti, dall’ampio respiro (cronologico e narrativo) delle vicende (che abbracciano, metaforicamente, anche l’origine della casata Du Pont, nata a cavallo tra 700 e 800), alle dicotomie epiche del mito fondativo: gloria e sopraffazione, sangue e passione, violenza ed elegia. E se John Du Pont è emblema del capitalismo spietato, che non esita a quantificare uomini e cose con la legge del denaro, il lottatore che per inseguire la gloria rinuncia alla propria identità facendosi soggiogare dal guru, esprime il concetto di Robbe-Grillet secondo cui l’antieroe è “senza naturalezza, senza identità”. Per tutta la durata del film, asciutto e spietato, crudele e ricattatorio (perché ci fa specchiare nelle indecenze amorali dell’etica del profitto), i personaggi bramano la sola affermazione personale: John, che ha un rapporto di sudditanza con la madre (Vanessa Redgrave), vuole essere osannato come un Dio in terra, attraverso il trionfo della sua America alle Olimpiadi; Mark sacrifica i propri ideali per riuscire a primeggiare; Dave prima rifiuta di essere assoldato dal capo, poi accetta di allenare il team, per cupidigia, o forse solo per proteggere il fratello e ne pagherà le conseguenze. Travestito da film sportivo, Foxcatcher è in realtà una profonda riflessione sul cuore nero della Nazione, attraverso la messa a fuoco di relazioni stratificate e complesse, tra un fratello minore che vuole affrancarsi dal giogo (protettivo) del maggiore, che sceglie di “rifugiarsi” nella falsa amicizia di un ricco degenerato pronto a tutto pur di sedere sullo scranno del potere. Ed il potere, declinato in tutte le sue forme (nelle relazioni sociali, negli atleti valutati come merce di scambio o semplici mercenari, nella vittoria sportiva equiparabile al trionfo dei valori occidentali) è l’anima marcia di un grande paese delle (false) opportunità. Sintomatica appare allora la scena iniziale, il materiale di repertorio che ben descrive il lustro della famiglia Du Pont e poi, a seguire, Mark Schultz che spiega ad una platea di ragazzini il valore supremo della vittoria: “voglio parlarvi dell’America e del perché lotto”. Presentato al Festival di Cannes 2014, Foxcatcher, grandioso thriller psicologico e superbo film di attori, ha avuto cinque nomination all’Oscar, tra le quali miglior regia, miglior attore protagonista (Steve Carell) e migliore sceneggiatura originale.
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Vincenzo Palermo