La recensione di Frank, commedia stralunata e malinconica di Lenny Abrahamson, con Michael Fassbender nei panni di una misteriosa star dell’indie rock. Nei cinema da giovedì 13 novembre.
Chi è Frank? Se lo chiede Jon, tastierista pel di carota in cerca di gloria, molto social (twitta imperterrito) e poco sociale, da poco reclutato dai Soronprfbs, band indie rock dal nome impronunciabile e dallo stile sperimentale. Gli altri componenti, tra cui la psicotica Clara e il tastierista con manie suicide Don, lo sanno già: Frank è la voce del gruppo, nascosto ventiquattro ore su ventiquattro dietro un’ingombrante maschera di gomma, con grandi occhi inespressivi e bocca semiaperta. Non la toglie mai, neanche di notte e ogni tanto la sostituisce con un’altra uguale. Nessuno conosce i suoi lineamenti e l’uomo senza volto sembra appagato dalla sua bizzarra sociopatia. Quando la strana combriccola si ritira in un paesino sperduto per registrare l’album che potrebbe condurli al successo, i rapporti di forza tra i musicisti, già rovinosi, iniziano a cambiare. Decisamente in peggio. Il film di Lenny Abrahamson, scomodo e provocatorio, indaga la realtà virale (vuota) dei social network e la genialità creativa (piena) che si annida nelle sregolatezze di una bizzarra congrega di pazzi post-moderni. Quasi tutti i componenti della band sono infatti psicopatici affetti da misantropia o delirio paranoide, incapaci di vivere una vita normale. E così il contatto con l’altro si trasforma sempre in urto, aggressione indebita, mentre il raggiungimento della fama tanto vagheggiata è l’occasione giusta per risolvere (o acuire) conflitti di vario genere, antagonismi repressi e, soprattutto, per mettersi a nudo di fronte al pubblico e agli spettatori. Surreale e intensa, la storia di Frank, invece, non conosce svelamenti, perché il suo volto resta imperscrutabile, così come le sue espressioni, spesso raccontate da lui stesso da dentro il gommoso travestimento. Una fedele radiocronaca emotiva di ciò che non si vede. Il suo alveo protettivo contro il mondo respingente funziona da schermo entro cui introiettare emozioni, stati d’animo e palpitazioni, mentre il mondo esterno riceve la sua musica vibrante e ipnotica, quasi un doloroso mantra intervallato da silenzi “assordanti”. Frank è il nume tutelare di un sacro sound, succhia alimenti liofilizzati da una cannuccia ma si ciba soprattutto del rito che preannuncia le prove e le esibizioni: lento delirio psichedelico che va oltre lo sperimentalismo ed è incarnato nella fisicità claudicante del mattatore. Se Jon è lo spregevole “arrampicatore sociale” in cerca di celebrità a buon mercato (valutata soprattutto con la crescita esponenziale dei suoi follower su Twitter), Frank è allegoria dell’ “epilettismo” sociale, uno malattia che rimanda a famosi antecedenti (da Ian Curtis a Kurt Cobain), star schiacciate e insieme vivificate dalla malattia creativa. “Frank” indaga la quotidianità di una band e soprattutto le strane ossessioni del suo frontman “maudit”, costretto a nascondersi da tutto e da tutti. Eguagliando la performance “mascherata” di Hugo Weaving in “V per vendetta” Fassbender si concede anima e corpo fondendosi col genio e la sregolatezza del suo personaggio: volubile, narcotizzato, vitalistico, soffocato; rispetto al vendicatore mascherato, però, non ci sono avvincenti e coreografiche acrobazie da combattimento, ma introspettivi momenti di riflessione o di dialogo appassionato. Malinconica allegoria della contemporaneità alienante e deumanizzante, il film di Abrahamson è uno spaccato antropologico sul maledettismo del rock ai giorni nostri, sulle destabilizzazioni emotive create dalla “fama a tutti i costi” e sulle patologiche ossessioni dei tempi moderni in cui si paga un prezzo altissimo per essere accecati dalle luci della ribalta.
Vincenzo Palermo