Gianni Clementi, romano, è uno dei più noti ed importanti drammaturghi italiani. Autore di molte commedie di grande successo (tra le tante, Ben Hur – storia di ordinaria periferia, Ladro di razza, Il cappello di carta, L’ebreo, Clandestini, La spallata, Una volta nella vita, Grisù Giuseppe e Maria), molti suoi testi sono tradotti e rappresentati in tutta Europa. Ora sta ultimando i preparativi per mettere in scena il suo nuovissimo lavoro, a cui sta lavorando da anni, Romeo l’ultrà e Giulietta l’Irriducibile. Un’opera ambiziosa, scritta in versi, ambientata nei nostri giorni e nelle faide tra tifosi. Paolo Leone lo ha incontrato un sabato mattina, prima di una sessione di provini per scegliere i ruoli maschili dello spettacolo, davanti a un caffè. Ha concesso questa intervista in anteprima assoluta a Cultura & Culture, per parlare del suo nuovo progetto, ma anche di molto altro. Buona lettura.
In tutte le biografie che ti riguardano, c’è scritto che ti sei dedicato alla scrittura applicata allo spettacolo solo alla fine degli anni 80. Chi era prima Gianni Clementi?
Clementi era un ragazzo come tanti che finito il liceo, insieme ad altri studenti, mise su un gruppo di teatro, iniziando quasi per gioco. Io volevo fare l’attore. Nel gruppo c’era gente come Massimo Wertmuller, Silvio Vannucci, Daniela Giordano, tutti attori che poi hanno proseguito il proprio percorso, mentre io dopo qualche rappresentazione mi resi conto di essere davvero scarso. Però cominciavo ad interessarmi alla scrittura e scrissi anche una cosa ignobile che si chiamava “Il sole e la luna”, che mettemmo in scena in una delle cantine storiche di Roma, il Teatro Abaco. Ripensandoci, un testo davvero imbarazzante. Poi sai, la vita a volte prende il sopravvento, e lasciai tutto, teatro e scrittura, per fare tutt’altro. Dall’istruttore di nuoto a lavoratore in una cooperativa per il comune di Roma. Ma un giorno, era il 1986, Daniela Giordano che era ormai un’attrice che lavorava con lo Stabile di Genova, mi chiamò e mi disse di aver litigato con l’autore in vista del suo debutto al Festival di Asti che sarebbe avvenuto tra 30 giorni, chiedendomi di scrivere il testo per lei. Io avevo mollato tutto da sette anni! E lei: “So che tu puoi farlo!”. In tre giorni scrissi questo monologo, che racchiudeva 13 canzoni del repertorio di Juliette Greco, ne feci anche la regia, totalmente impazzito! Lo spettacolo andò benissimo, facemmo tre anni di tournèe, e da quel momento riesplose la mia passione. Se ho combinato qualcosa in teatro, lo debbo a Daniela. Se non mi avesse telefonato quel giorno…
Sei un amante della tragedia. Come mai allora ti sei dedicato alla commedia, che ha fatto conoscere il tuo nome poi in tutta Europa?
Sì, io mi reputo assolutamente un autore drammatico, adoro la tragedia. E’ vero anche che nelle cose più “serie” che ho scritto c’è sempre una vena ironica, che non credo sia tanto mia quanto del popolo romano. Dopo lo spettacolo di cui ho detto poco fa, la prima produzione importante fu, nel 90, Maligne congiunture, una storia tragicissima di quattro donne, prodotta dal Teatro Stabile di Calabria. In un testo così tragico c’erano comunque i primi germi di un’ironia che coltivai in seguito fino a quando decisi di adottare la lingua romana nei miei testi. Fu la svolta. Mi dava un fastidio tremendo ascoltare il romano utilizzato in modo indecoroso e volli tentare di restituire dignità teatrale alla mia lingua. E la chiamo lingua non a caso, perché sono convinto che non abbia nulla da invidiare ad altre lingue teatrali sdoganate dalla critica. Quella romana è ancora vista con sospetto e direi anche giustamente, visto l’utilizzo becero che ne è stato fatto negli anni in televisione e nei film di quart’ordine. Ma il romano è stato usato anche dai grandi. Non a caso Pasolini lo aveva adottato. Fu per questo che scrissi Il cappello di carta, che fu prodotto da Ettore Scola. Quello fu il momento che dette il via alla mia popolarità.
Mi allaccio a quanto hai detto ora. In tutte le tue commedie, dietro una risata c’è sempre un graffio. Quanto è importante l’una nei confronti dell’altro?
Io dico sempre una cosa: per parlare di cose anche importanti, bisogna far sedere lo spettatore a tavola con gli attori. Se non si riesce a far questo, è difficile far arrivare determinati messaggi, o anche solo parlarne. Io è con la risata che li faccio mettere a tavola, li rassicuro. Quando sono rassicurati, rilassati, allora meno, colpisco. E a loro piace. Se colpisci prima, a freddo, è difficile renderli poi tuoi complici.
Gianni, a febbraio (dal 22 al Teatro Roma, nella capitale – nda) è previsto un debutto importante. Uno spettacolo, Romeo l’ultrà e Giulietta l’irriducibile, a cui stai lavorando da molto. Le cronache delle ultime settimane sembrano anticipare certe tematiche.
Sì, ma in questo caso sono io che ho anticipato la cronaca. E’ un progetto a cui sto lavorando da circa cinque anni. Un’opera importante, e lo dico con rispetto nei confronti del termine opera, ma in questo caso credo che sia una parola appropriata perché è scritta tutta in versi, in quartine, e gli ho dovuto dedicare il tempo necessario. Un lavoro ambizioso iniziato molto tempo fa e credo che quello che sta accadendo non oggi, ma da anni, intorno al tifo nel calcio, nelle curve degli stadi, non è altro che una riproposizione degli schemi che viviamo giornalmente nella nostra società. Siamo ormai permeati di violenza, e spesso ne siamo protagonisti anche noi involontariamente. Basti pensare a quello che diciamo quando siamo in macchina nel traffico. Per stupidaggini siamo pronti a scattare, a reagire.
In questo nuovo spettacolo userai, come facesti con Le belle notti, un folto gruppo di ragazzi e ne sarai anche il regista, quindi doppia fatica. Ti stimola molto lavorare con loro, vero?
Sì, io adoro i ragazzi, e non perché ho tre figli. Mi piace lavorare con loro perché sono privi di sovrastrutture, sono persone ancora libere da tanti condizionamenti. Prevale l’istinto, a volte anche in senso negativo, però in loro c’è la buona fede. C’è una frase del ’68 che è molto indicativa: non fidatevi mai di chi ha più di 30 anni (scritta su uno striscione nella scena de Le belle notti – nda) e mi ci metto in mezzo anche io. Penso di essere una persona onesta, però inevitabilmente sono condizionato da certe dinamiche.
Con questo nuovo lavoro Romeo l’ultrà e Giulietta l’irriducibile, ti relazioni con la realtà romana del tifo calcistico, anche se le tematiche trattate sono assolutamente trasversali e direi, visto che si parte dalle dinamiche della tragedia di Shakespeare, universali. Non temi che puntare i fari sulla realtà dello stadio possa suscitare le polemiche che ci furono, tanti anni fa, dopo l’uscita del film Ultrà di Ricky Tognazzi?
Il tema del calcio e delle curve è unicamente un pretesto per parlare della violenza che viviamo ogni giorno in qualsiasi luogo, dai social alla strada. Mi sembrava che la storia di Romeo e Giulietta, inserita in un contesto di questo tipo, acquistasse un valore aggiunto. E’ una storia che potrebbe svolgersi indifferentemente a Manchester, a Milano, a Torino, ovunque ci siano forti contrapposizioni nel tifo, ma negli stadi si ripropongono le dinamiche malate della società. Ovviamente mi riferisco a frange estreme. La grande maggioranza dei tifosi va allo stadio per vedere la partita. Io amo il calcio, è la mia più grande passione dopo il teatro, andavo anche in trasferta a vedere le partite. Ma ritrovarmi in una curva tra braccia distese e cori razzisti non mi piace, è una dimensione altra. Così come non mi piace essere insultato per strada perché magari mi fermo prima delle strisce per far passare un pedone. Io voglio parlare di questo, della violenza in agguato ovunque, ormai.
Testo in versi, hai detto, e non è la tua prima volta. Finis Terrae, che presentasti allo Stabile di Perugia qualche anno fa, era uno spettacolo innovativo, grandioso, sulla tematica degli sbarchi dei migranti, ma ha avuto vita brevissima. Come mai, questione di costi?
Ah, tu lo sai Paolo? Le dinamiche teatrali io ormai non le capisco più. Secondo me era uno spettacolo, oltretutto con la regia di Antonio Calenda, di una attualità sconcertante, ma è passato quasi inosservato. Penso che siamo una società destinata all’implosione, perché non abbiamo più curiosità. Siamo convinti di sapere tutto, di essere i depositari della verità e quindi, secondo la nostra logica, il pericolo viene da fuori. Sono convinto che da fuori vengano invece anche le novità e che bisognerebbe lasciarsi contagiare da queste, aprire un po’ la testa. Finis Terrae parlava proprio di tutto ciò. Non a caso, i due protagonisti (Paolo Triestino e Nicola Pistoia – nda) contrabbandieri, dal momento in cui quei poveri cristi arrivano sulla spiaggia, iniziano a parlare in versi, contaminati dalla novità. Amo i giovani, come dicevo prima, soprattutto perché sono curiosi.
A meno che, però, come si evince dalla sinossi del tuo nuovo spettacolo, non siano manipolati da capipopolo che inculcano loro un odio predeterminato.
Per questo dico di non fidarsi di chi ha più di trent’anni! Lo dico anche ai miei figli. Io spero di dire cose giuste, ma li spingo sempre ad usare il proprio cervello, a farsi un’idea propria. L’adulto viene comunque visto con considerazione da loro, ma se incontri l’adulto sbagliato sono problemi.
Romeo e Giulietta, da Shakespeare ai nostri giorni. L’amore non vince contro la violenza?
Purtroppo no, non vince nemmeno oggi. La nostra Società sembra non considerare più l’amore come un valore assoluto. E non mi riferisco solo all’amore della coppia. L’amore verso il prossimo, e lo dico da non credente (con qualche dubbio), sembra essere stato cancellato dalle nostre vite. Ma se non si amano gli altri, si fa fatica ad amare se stessi. Non bastano certo i fisici scultorei, i tatuaggi, a farci acquistare la vera autostima di cui un essere umano ha bisogno.
Sempre a proposito di giovani, perché il teatro fa così fatica a penetrare nelle loro vite?
Mah, forse perché, credo, il teatro tende ad essere un po’ troppo autoreferenziale. Io non ho mai creduto all’autore maledetto, chiuso nella mansardina comprata da papà a tormentarsi sulla crudeltà della vita. Bisogna vivere, Zavattini diceva che per capire la gente bisogna prendere l’autobus. Se non conosci la vita, perché un ragazzo dovrebbe venire a teatro a sentire cose che appartengono solo a te? Devi parlare della vita.
Quindi, dall’alto della tua esperienza, cosa consiglieresti agli autori giovani?
Salite sugli autobus, appunto, prendete la metropolitana, ascoltate la gente. A me piace immaginare le professioni delle persone che vedo nella metro, per esempio. Mia moglie l’ho conosciuta proprio così, per questa curiosità, in una stazione di Madrid. Immaginavo che fosse una maestrina che tutte le mattine prendeva il treno. Ci siamo sposati, abbiamo tre figli, stiamo insieme da 22 anni, lei è argentina, stava lì per caso. Vedi la curiosità? (ride, nda)
Cosa ti aspetti da Romeo l’ultrà e Giulietta l’irriducibile?
Spero davvero che la gente che verrà a vederlo esca dal teatro pensando a come siamo, a come siamo diventati. E mi piacerebbe molto che qualcuno mi ripetesse quello che mi disse una volta uno spettatore dopo aver visto il mio Ben Hur. Era un omone tutto tatuato, con un aspetto un po’ coatto, almeno nella forma. Mi puntò, si avvicinò, e mi chiese: “l’hai scritto te?” e io, un po’ timoroso, gli dissi di si. E lui: “Io sò razzista, ma stasera me sò vergognato!”.
Paolo Leone