Hungry Heart di Saverio Costanzo è un’appassionante e tragica storia di due anime affamate di vita, d’amore e di morte. Il film è al cinema dal 16 gennaio.
Che Saverio Costanzo avesse una sensibilità incline al cinema di genere e di denuncia sociale lo si era già capito fin dal suo esordio con “Caffè mille luci” del 2001, e confermato negli anni successivi da “Sala rossa” e dal coraggioso documentario pro palestinese “Private”, Pardo d’oro al Festival di Locarno. I suoi film, anche quando si tratta di opere che guardano allo star system italiano, e penso a “La solitudine dei numeri primi”, trasposizione dell’omonimo romanzo di Paolo Giordano, risplendono di una profondità stilistica e narrativa capace di collocarsi in una dimensione altra, imbevuta di inquietudini esistenziali e ideologie forti, lontano dal “comune ghetto” della commedia all’italiana o dall’austerità di opere pretenziose e paludate. Oltrepassando i confini del particolare per rivolgersi all’universale, Costanzo racconta storie di un’umanità dissidiata pronta ad affermare se stessa, cogliendo, in equilibrio tra leggerezza e pathos tragico, il relativismo culturale che alberga in ognuno di noi. Presentato alla 71esima mostra del cinema di Venezia, Hungry Hearts è l’ennesima sfida del regista apolide, innamorato dell’idea che accende l’individuo e che lo conduce verso mete non sempre agognate. Alla base del suo sesto lungometraggio c’è il romanzo di Marco Franzoso “Il Bambino indaco”, drammatica vicenda dei tormenti di una coppia alle prese con la particolare strategia di crescita ed educazione che la madre, paranoica salutista, impartisce al figlio piccolo, credendolo un bimbo speciale. Se il libro ha un drammatico incipit in medias res che, attraverso un flashback, svela una morte improvvisa, Hungry Heart di Saverio Costanzo, regista e sceneggiatore, ci conduce, camera a spalla e inquadrature sghembe, all’interno della “via crucis” familiare, a distanza ravvicinata dai due straordinari protagonisti, Adam Driver e Alba Rohrwacher, vincitori di due coppe Volpi a Venezia. I due si incontrano in uno scalcinato ristorante cinese nello spazio claustrofobico di una toilette in cui rimangono bloccati. Stacco e cambio sequenza. Dopo la dissolvenza in nero la camera indagatrice scruta i corpi nudi degli amanti stesi sul letto. Sembra la normale cronaca di un amore appena sbocciato tra l’architetto americano Jude e l’italiana Mina che lavora presso l’ambasciata.
Gradualmente, la lucidità spietata del regista condurrà lo spettatore nell’ “inferno domestico” costruito su misura da Mina per il proprio figlio.Accecata da deliri vegan e manie salutiste spinte all’eccesso, decide di segregare in casa il piccolo evitandogli qualsiasi contatto col mondo esterno e nutrendolo talmente poco e con cibi così poco adeguati da impedirgli una normale crescita. Al contrario di Rosemary nel dramma da camera polanskiano, portatrice (in)sana del diavolo in grembo, Mina si è convinta, in seguito alle parole di una veggente, di avere dato alla luce una creatura speciale, dotata dell’esoterica aura indaco che abbisogna per questo di particolari cure. Se all’inizio, i quadri narrativi del film dipingono la classica situazione da family drama, man mano che il racconto progredisce, scandito da una sceneggiatura piana che non si concede picchi vertiginosi, vira verso atmosfere gravide di inquietudini e solo in parte smorzate dal generale tono pacato che attraversa tutto il film. Il regista sembra voler annullare le distanze tra il pubblico e i personaggi, grazie ad una scrittura empatica e scarsamente enfatizzata che consente una totale immedesimazione nella tragedia incombente. In una “poetica degli spazi”, da quelli angusti del bagno che “galeotto fu” a quelli claustrofobici della serra costruita in casa da Mina, fino all’opprimente rappresentazione espressionista della dimora dei coniugi, Costanzo elimina ogni riverbero e qualsiasi rifrangenza esterna al dramma a due dei genitori e amanti. Ci sono solo loro, le loro paure, i rancori e le frustrazioni, le angosce e la confusione tra “amori diversi”; quello filiale di Jude verso la madre, quello malsano di Mina per il figlio trattato come merce da plasmare, quello dei due genitori che si accende all’inizio per poi spegnersi ed esplodere, nel finale, in puro atto tragico. Hungry Hearts, acclamato a Venezia e nelle sale italiane dal 15 gennaio, è l’ennesima dimostrazione che Saverio Costanzo è detentore, come i suoi colleghi della “nouvelle vague” italiana, degli strumenti che hanno fatto grandi i cineasti europei del passato: sensibilità multiculturale, capacità di fine scrittura, rielaborazione sobria del linguaggio drammatico e, non in ultimo, attitudine al racconto di chiara ispirazione letteraria.
Vincenzo Palermo