Il 9 settembre è uscito in Italia “Lullaby and…the ceaseless Roar”, decimo album da solista di Robert Plant. Un disco “incantevole”, nel senso letterale del termine, che vi regalerà un viaggio attraverso voi stessi e la musica. La recensione del nuovo album.
“E’ una curiosa creatura il passato, e a guardarlo in viso si può approdare all’estasi o alla disperazione”, scriveva la celeberrima poetessa inglese Emily Dickinson. Versi che sembrano perfetti per descrivere le sensazioni provate da tutti i fan dei Led Zeppelin ogni volta che Robert Plant torna sulle scene con un nuovo lavoro. “Disperazione” perché di quelle sonorità, di quel ritmo, di quei riff di chitarra che hanno reso immmortale la band inglese è rimasto davvero poco. “Estasi” perché permane invece intatta la sua capacità di ipnotizzare chiunque lo ascolti attraverso una musicalità sorprendente, mai banale e sempre in cerca di qualcosa di diverso, di una nuova nota che riesca a esprime le sensazioni di oggi, un oggi che in “Lullaby and…the ceaseless Roar” è quanto mai differente dagli albori di ieri.
I nostalgici si mettano il cuore in pace: i Led Zeppelin non torneranno più. Ma un Robert Plant così, a 66 anni e con il suo passato, è un regalo da scartare lentamente. Una volta aperto “il pacchetto”, il sorriso oltrepasserà il momento e vi accompagnerà per giorni, perché quest’album è un giocattolo che vi terrà compagnia per tanto tempo.
“Lullaby and…the ceaseless roar” è un viaggio nel tempo e nello spazio. Abbandonate le immense pianure degli Stati Uniti e le sonorità di Nashville e Austin presenti in “Raising Sand” (2007), Robert Plant torna in Inghilterra e riscopre le sue origini. Un’Inghilterra che però si mescola con il Nord Africa e con il Galles creando un suono che in un primo momento lascia spiazziati e disorientati (alzi la mano chi si aspettava come primo brano una “Little Maggie” così), ma che andando avanti diventa una traversata in cui la voce intensa, ma mai urlata, di Plant si erge a ruolo di “Caronte” e ci conduce in un porto sicuro.
L’ultimo disco dell’ex frontman dei Led Zeppelin (accompagnato dai sui Sensational Space Shifters e dal violino a una corda di Juldeh Camara) è stato in parte registrato ai Real World di Peter Gabriel, studi immersi nella campagna inglese la cui atmosfera nebbiosa e autunnale riecheggia in “Embrace Another Fall” e negli altri 10 brani che compongono l’opera.
L’inizio è straniante. La cover di “Little Maggie” fonde folk americano e ritmo africano lasciando il pubblico in balia di percussioni, banjo e violini che si mescolano con la sperimentazione di John Baggott creando un pezzo che non ci si aspetta di sentire in un album marchiato Plant.
“Raimbow” , secondo singolo dell’album, è una canzone semplicemente meravigliosa. Un pop etnico, elegante, evocativo in cui le corde vocali del “vecchio leone” ci accompagnano per i “Seven seas” e diventano “un arcobaleno”. Niente più frizioni e durezza per l’ex Led Zeppelin. Con “House of Love” e “A Stolen Kiss” (quest’ultima, una dolcissima ballad piano e voce) , il cantante inglese lascia spazio alla morbidezza del suono, alla profonda malinconia con cui lascia andar via il suo amore per Patty Griffin, a una sperimentazione sempre sorprendente, ma mai aggressiva.
I nostalgici del rock più puro però non rimarranno delusi, il riff di chitarra di “Turn It Up” (ma anche di “Somebody there”) lascia trasparire una maestria ancora intatta nonostante gli anni, mentre il verso “the sun refuse to shine” che apre “Pocketful of Golden” farà scendere qualche lacrimuccia agli amanti dei Led Zeppelin che riusciranno a ricordare con affetto l’intramontabile “Thank You”.
L’album si chiude così come era iniziato, in maniera sorprendente. “Arbaden”, cantata in lingua Fulani da Camara, riprende i ritmi di “Little Maggie” e conclude un viaggio concentrico la cui la chiave di lettura, nonostante i cambiamenti, la sperimentazione e la miscela di ritmi tanto differenti, rimane sempre la stessa: la musica.
“The Lullaby and…the ceaseless roar” è un disco ambizioso, completo, pieno, in cui la voce dell’immenso Robert Plant ci accompagna passo dopo passo all’interno di un percorso attraverso noi stessi e l’energia che ci circonda. Un’opera riuscita, omogenea nella sua eterogeneità, che si presenta come una delle migliori all’interno della discografia da solista del cantante. I Led Zeppelin sono il passato, ma questo Robert Plant è un presente meraviglioso.
Vittoria Patané