Sentiamo spesso ripetere che il terrorismo islamico è una minaccia globale. Questa espressione racchiude per intero tutti gli elementi che compongono il difficile momento storico che stiamo vivendo. Da una parte, infatti, viene messo in rilievo il carattere violento, minaccioso e pericoloso del terrorismo, dall’altra la sua enorme portata che può arrivare, quando non di fatto almeno potenzialmente, a stritolare tutto il mondo. Ciò che vediamo, per esperienza diretta o attraverso la televisione, degli attentati, è il lato più brutale e feroce del male. Ci troviamo di fronte alla morte e al sangue e, benché questo sia l’aspetto più terribile, non è il solo attraverso il quale “prospera” il terrorismo. Dietro a ogni atto di questo tipo, infatti, vi sono interessi politici, economici, strategie culturali, militari, psicologiche. Non solo: spesso sentiamo dire che gli attentatori sono folli; vero. Tale pazzia si esplica a diversi livelli che corrispondono a differenti tipi di coinvolgimento nell’azione terroristica. Dovremmo, quindi, specificare bene cosa intendiamo con “destabilizzazione psicologica”, in modo da chiarire il meglio possibile l’entità della responsabilità. Insomma, non dovremmo parlare di “follia pura”, poiché in realtà la questione è più complessa e non possiamo rischiare di creare facili scappatoie per chi non dovrebbe averne.
Quindi, se alla coscienza malata, o all’assenza totale di questa, si accompagnano altri fattori, più nascosti e che potremmo definire “geopolitici” e di cui l’atto terroristico è la manifestazione più evidente e violenta, occorre isolare questi fattori, comprenderne la natura, farli emergere e intervenire su di essi. Detta in questo modo può sembrare facile, ma sappiamo bene che già far trovare un accordo ai Paesi europei in modo che possano studiare una strategia concreta non è affatto un’impresa da poco e, del resto, l’inazione e la procrastinazione hanno consentito al terrorismo islamico, nella fattispecie all’Isis, di diventare un nemico impossibile da evitare. E’ giusto, però, porsi delle domande, capire perché le nostre vite e la nostra libertà è in pericolo e cosa possono fare le nazioni europee ed extraeuropee per affrontare il problema. Chi sono i terroristi? Da dove vengono e perché sacrificano la loro esistenza e spesso la loro giovinezza? Chi li comanda, chi li finanzia e quali interessi ci sono in ballo? E’ possibile trovare un margine di trattativa? L’Europa e gli Stati Uniti cosa stanno facendo in concreto? In particolare come si stanno muovendo proprio gli Stati Uniti e la Russia?
Iniziamo proprio dalle ultime due domande: all’indomani degli attentati di Parigi del 13 novembre c’è stato un incontro, durante il G20, tra il presidente Obama e il presidente Putin, in cui entrambi hanno ribadito il loro impegno contro l’Isis e la necessità di agire subito. Purtroppo i due storici rivali hanno visioni diverse della politica e dell’azione da svolgere contro il terrorismo e questo rappresenta un problema: Obama ha riconosciuto l’importanza dell’azione militare russa in Siria, ma l’appoggio della Federazione ad Assad è mal visto. Gli Stati Uniti vorrebbero evitare un conflitto aperto in Medio Oriente, preferendo che siano i musulmani sunniti a impegnarsi nella lotta contro il califfato. Questa strategia, però, potrebbe non essere attuabile non solo per un problema di vuoto di potere e di rivalità fra tribù ed etnie (pensiamo alla Libia, per esempio), ma anche perché la minaccia non è più (e forse non è mai stata, a dirla tutta), confinata al di là del Mediterraneo, ma è arrivata, già con l’11 settembre, fin nel cuore degli Stati Uniti e poi dell’Europa.
Il presidente francese Hollande potrebbe ricorrere all’articolo 5 del Trattato Nato (4 aprile 1949), in cui si stabilisce che “le parti [firmatarie] convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti e di conseguenza…ciascuna di esse…assisterà la parte o le parti…intraprendendo l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata…”. In effetti le ultime notizie parlano della richiesta di aiuto all’Ue da parte di Hollande, subito accettata, e del ricorso all’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona (13 dicembre 2007), il quale ribadisce quanto detto nel Trattato Nato: “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite…”. L’offensiva francese già iniziata è coadiuvata dalle forze militari russe. La Russia, poi, ha intensificato il proprio impegno contro l’Isis dopo aver ufficializzato la notizia secondo la quale l’aereo caduto il 31 ottobre scorso nel Sinai è esploso in volo a causa di una bomba probabilmente preparata e innescata da terroristi dell’Isis (su questo fatto, comunque, permane un minimo margine di incertezza).
Tra l’altro non è escluso neppure che Putin metta da parte Assad, ormai compromesso e si trovi un accordo su un nuovo nome che abbia un riconoscimento e un appoggio più ampi. Intanto la Russia ha inviato 25 bombardieri in Siria per cancellare definitivamente dalla faccia della terra le roccaforti dell’Isis e i primi numeri parlano di almeno 14 obiettivi già centrati. Chiariamo, allora, un paio di punti: sappiamo bene che Vladimir Putin è, per molti, un uomo scomodo: potremmo dire che alcuni lo amano e altri lo odiano. Non ci interessa, ora, capire i suoi interessi, le sue motivazioni politiche, eventuali pregi o difetti: è, invece, il momento di agire tutti insieme contro l’Isis, mettendo da parte le rivalità. Se facciamo questo abbiamo una speranza, altrimenti l’apparenza è quella di una corda che si snoda tra i diversi Paesi in lotta contro il terrorismo islamico, ma già sfilacciata. Non è il momento, insomma, di chiusure politiche, di tentennamenti o “capricci” basati su altro tipo di interessi che non siano il ristabilimento della pace e l’eliminazione dell’Isis.
Altro punto, strettamente collegato al primo: i trattati menzionati, è evidente, non prescrivono un “obbligatorio” aiuto militare; è tra le possibilità, però in una condizione come quella che stiamo vivendo è necessario che UE e Stati Uniti studino anche l’eventualità, ormai per nulla remota, di un intervento armato concertato tra le varie forze in campo, oltre al sostegno umanitario e logistico. Il nostro futuro si sta delineando in questo momento attraverso le azioni che verranno (o meno) decise e intraprese. Proprio in queste ore, inoltre, un blitz avvenuto, all’alba, Saint-Denis ha permesso di penetrare nel covo dei terroristi in cui, secondo l’intelligence francese, si trovava “la mente” degli attacchi di venerdì scorso, Abdelhamid Abaaoud, di 28 anni. A quanto risulta proprio quest’ultimo, insieme al suo gruppo, stava già preparando due nuovi attentati, nel “cuore” economico di Parigi, la Defense e all’aeroporto Roissy-Charles De Gaulle. Sempre stando alle ultimissime notizie la polizia avrebbe sparato ben 5000 colpi e Abaaoud è morto durante il blitz. Sono state arrestate 8 persone, mentre una ragazza, Hasna, probabilmente cugina di Abaaoud, si è fatta esplodere. E’ la prima donna kamikaze in Europa, aveva 26 anni ed era nata a Parigi.
Un’altra notizia, riguardante questo raid, sta facendo il giro del mondo, commuovendo tutti ed è giusto ricordarla: la morte del cane poliziotto Diesel, colpito dai proiettili dei terroristi subito dopo essere entrato nel loro covo. Questi sono gli ultimi avvenimenti e le ultime decisioni politiche. Molti, però, si chiedono chi finanzi il terrorismo islamico, in special modo l’Isis e come vengano reclutati gli uomini e le donne pronti a divenire “martiri di Allah”. Vladimir Putin ha dichiarato, durante il G20, che i jihadisti sarebbero finanziati da persone provenienti da almeno 40 Paesi, alcuni dei quali membri del G20; i soldi arriverebbero nelle tasche del califfo al-Baghdadi in due modi: il commercio illegale di petrolio e la zakat. Nel primo caso, stando ai calcoli dell’Istituto per la Politica del Medio Oriente, a Washington, si parlerebbe di almeno due milioni di dollari al giorno, oltre alla possibilità di sfruttare per il male una risorsa che è sempre stata nelle mani di pochi, ma che, se continuerà in questo modo, rischia di divenire un tesoro di esclusiva proprietà dei jihadisti. Parliamo di circa 80.000 barili al giorno che arrivano dal 60% dei giacimenti petroliferi ubicati nelle zone controllate dall’Isis e venduti a Paesi quali la Turchia e l’Iran a prezzi molto più bassi di quelli del mercato attuale. A proposito di commerci illegali, dovremmo menzionare anche quello, purtroppo “sempreverde” di reperti archeologici; di solito vediamo i seguaci del terrore distruggere il passato e la memoria collettiva. Ciò che si salva dalla loro furia viene rivenduto attraverso reti “sotterranee” e può arrivare perfino nelle mani di ricchissimi stranieri.
Nel secondo caso la zakat, ovvero l’elemosina obbligatoriamente prescritta nella religione islamica, sarebbe diventata l’escamotage con cui potenti uomini d’affari del Qatar, del Kuwait e dell’Arabia Saudita e della Turchia fanno arrivare ingenti somme di denaro all’Isis. Sfruttando alcune banche, soprattutto in Kuwait e approfittando del fatto che i governi di questi Paesi non riescono a controllare in modo capillare l’intero sistema bancario interno, gli uomini d’affari convertono in donazioni private a enti di beneficenza i veri e propri finanziamenti che consentono ai terroristi di vivere, reclutare altri seguaci e acquistare armi. Queste informazioni sono in possesso del Cremlino e del Dipartimento del Tesoro di Washington. Molte volte, nel corso degli anni, è stato puntato il dito anche contro gli stessi governi dei Paesi suddetti. Quel che è certo è il coinvolgimento di troppe persone, sia nel passaggio di denaro che nello sfruttamento illegale dell’oro nero. Si tratta di un business che arricchisce l’estremismo di giorno in giorno, consentito da connivenze e corruzione.
Non dimentichiamo, poi, anche un altro sistema fondamentale per arricchire le casse dell’autoproclamato stato islamico: le tasse. Al-Baghdadi ha pensato a tutto: c’è perfino una tassa che i non musulmani dei territori conquistati sono tenuti a pagare, sulla falsariga della dhimma. Purtroppo il giro d’affari controllato dall’Isis è enorme: dovremmo ricordare anche il traffico di esseri umani, una vera e propria tratta che frutta milioni di dollari e riduce in schiavitù uomini, donne, perfino bambini. Tutti noi abbiamo letto ciò che accade alle donne yazide, rivendute per pochi dollari nei mercati del califfato oppure a uomini facoltosi che le terranno schiave nei loro harem. A tal proposito, troppo spesso la tratta delle schiave (bianche e non) si confonde con le leggende metropolitane, ma è una piaga vera, realmente esistente e sfruttata con ferocia anche dai militanti dell’Isis. Abbiamo accennato al significato di “follia” applicato al terrorismo: in questi giorni i media francesi hanno riportato la notizia secondo la quale i terroristi avrebbero fatto uso di anfetamine prima dell’attacco; sono state trovate siringhe in casa di uno degli autori della strage del 13 novembre, Salah Abdeslam.
Per dirla tutta anche uno degli autori dell’attentato sulla spiaggia tunisina del 26 giugno ha fatto uso di stupefacenti. In entrambi i casi si tratta della stessa sostanza, il Captagon, una droga molto potente e in grado di provocare, come riportano i media francesi, un delirio di onnipotenza. Sappiamo che questo tipo di sostanze, letteralmente, “bruciano” il cervello. Se uniamo tale terrificante elemento al lavaggio del cervello subito dai seguaci dell’Isis, all’odio che hanno imparato a covare nel tempo e, in molti casi, a situazioni di fragilità psicologica preesistenti, il risultato è devastante. Le variabili sono numerose: è assolutamente probabile che molti di coloro che offrono la propria vita in nome della violenza non abbiano neppure una coscienza, in tal caso l’odio può essere frutto di pazzia e/o dell’uso di droghe, o magari semplicemente di una sconcertante, lucida, malvagità che, però, in sé già porta i semi di una qualche devianza. Noi, però, stiamo parlando della “manovalanza” terroristica. I capi di queste organizzazioni e i loro finanziatori, ovvero le persone che sono ai più alti livelli della “gerarchia”, al di là di un possibile uso di stupefacenti, di una evidente brutalità, del disprezzo “dell’altro” e dei suoi diritti sono, in genere, dei manipolatori. Queste persone dovrebbero mantenere un grado di lucidità maggiore, proprio perché il loro compito è esercitare una forte pressione psicologica sui più deboli, irretirli, comandarli, sfruttare al meglio il loro stato di sudditanza.
In poche righe comprendiamo quanto questo argomento sia vasto e complesso. Possiamo, però, dire che la follia, comunque presente in questi soggetti, non può e non deve diventare attenuante, né un modo per liquidare velocemente un fenomeno che possiede ben più vigorose ramificazioni sociali, religiose, culturali e psicologiche. Anzi, lo studio di questa va approfondito in applicazione a simili eventi e in vista delle reazioni dell’Occidente, anche perché è evidente che su basi simili e guardando agli eventi che ci stanno travolgendo, è impossibile (e impensabile) qualunque margine di trattativa. Ascoltando dei proclami provenienti dai militanti dell’Isis o anche delle dichiarazioni di foreign fighters, notiamo quanto il coinvolgimento psicologico sia profondo e radicato, per questo dobbiamo avere chiare le implicazioni, le cause, le conseguenze e i metodi di coercizione adottati dal terrorismo islamico. Spesso si indottrinano giovani in determinate moschee o carceri, ma anche attraverso forum online, siti e social network. Se ci pensiamo bene, vengono scelti proprio dei ragazzi per ucciderne altri: almeno questo è accaduto a Parigi. Un altro elemento da non sottovalutare: è come se i capi del terrorismo ci stessero dicendo che non solo vogliono colpirci nella nostra normalità, negli svaghi e nella libertà, ma vogliono farlo distruggendo il futuro di cui i giovani sono protagonisti assoluti.
E per farlo ci mandano contro dei coetanei, talvolta nati e vissuti in Occidente, che dell’Europa conoscono tutto, in modo particolare la tecnologia e sfruttano queste conoscenze e i diritti garantiti a tutti per attaccare. Ora più che mai parlare di integrazione è diventato complicato. Bisogna, però, ricordare delle cose importanti: non tutte le moschee o le carceri sono covi di aspiranti jihadisti, al contrario. Allo stesso modo non possiamo definire terroristi tutti i fedeli di un credo religioso. L’Islam moderato si sente poco, probabilmente ha paura, ma c’è e deve trovare il coraggio di uscire allo scoperto e prendere posizione.
Durante la Seconda Guerra Mondiale e già da prima, con l’ascesa di Hitler, non tutti i tedeschi credevano nell’ideologia nazista, non tutti si riconobbero nelle folli strategie culturali, sociali e militari del fuhrer, ma pochi trovarono il coraggio di opporsi; alcuni fuggirono, altri accettarono passivamente per paura (o interesse), altri ancora morirono tentando (lo stesso per il fascismo). Anche la loro voce era flebile e sappiamo ciò che accadde; pagammo tutti un conto altissimo per riprenderci la libertà e per aver sottovalutato ciò che stava accadendo o, comunque, per non aver agito con determinazione quando era ancora possibile, anche i tedeschi che nulla avevano a che fare con il nazismo, anche gli italiani che nulla avevano a che fare con il fascismo. La Storia, però, esiste perché la comprendiamo davvero, al di là della nostra confessione religiosa, perché ne facciamo tesoro e impariamo a usare la ragione. Ci ripetiamo sempre che gli errori del passato devono essere un monito per noi, non accadere una seconda volta. Adesso abbiamo l’opportunità, cristiani, musulmani, atei o di qualunque altra fede, di mettere in pratica l’insegnamento, di dimostrare che non sono solo parole svuotate del loro significato. La Storiaci giudicherà per quel che faremo e per quel che non faremo, per i valori che abbiamo difeso e per quelli che abbiamo dimenticato nella lotta contro il terrorismo islamico, sullo scacchiere geopolitico del presente.