Il grande pubblico italiano l’ha conosciuta prima nel 1984, quando affiancò Pippo Baudo al Festival di Sanremo, poi qualche anno più tardi, nel 1998, con il personaggio di Irene, nella serie televisiva “Un medico in famiglia”. Capelli rossi e sguardo intelligente, Edy Angelillo spazia dal teatro alla televisione e al cinema, senza dimenticare la danza e il canto. Artista completa, dunque. Edy nella seguente intervista si racconta a Cultura & Culture, partendo dagli esordi fino allo spettacolo teatrale “La vita a rate”.
Edy, non volevo partire da molto lontano, ma il tuo esordio cinematografico nel lontano 1979 in Ratataplan di Maurizio Nichetti, ti dette grande popolarità da subito! Tutti quei capelli rossi, carina, diciamo pure che turbavi le nostre fantasie adolescenziali… (ride a crepapelle, ndr). Il tuo ricordo di quell’esordio, di Nichetti che sembrava dovesse sfondare e poi è scomparso? Come vivi l’estrema aleatorietà della vostra professione?
La vivo con molta filosofia, nel senso che è la nostra forza! Nasciamo precari e moriamo precari, quindi i momenti di crisi li sentiamo sì, ma noi viviamo perennemente in crisi e questo ci aiuta ad andare avanti proprio perché siamo stra-abituati a lavorare tanto, poi a non lavorare più, a non sapere cosa fare domani… quindi siamo molto allenati! In un certo senso, siamo anche molto bambini in questo, forse anche un po’ superficiali, ma è anche grazie a questa superficialità o incoscienza che riusciamo ad andare avanti. Oltre alla grande passione, perché se non hai quella, con una vita del genere non sopravvivi. Per quanto riguarda il film ho un ricordo bellissimo, era la mia prima apparizione e nessuno avrebbe scommesso una lira su quella pellicola che costò nemmeno 99 milioni di lire e ne incassò molti di più. Io all’epoca studiavo danza, recitazione, mimo, feci un provino e mi scelsero. Quando Nichetti ci disse che saremmo andati a Venezia, nessuno di noi ci credeva.
Ci siamo conosciuti qualche mese fa, ma ogni volta che parliamo ho l’impressione di farlo con una vecchia amica, nel senso che mi sono reso conto che il tuo curriculum artistico ha accompagnato la mia generazione in varie tappe, per tanti anni, con cinema, tv, teatro, addirittura hai fatto nell’84 la valletta a Sanremo. Ci sei sempre stata! Negli ultimi anni mi sembra che tu abbia ritrovato una consacrazione nel teatro piuttosto che in altri ambiti.
Sì, hai ragione, ho fatto tante cose. Il teatro, poi, è stata sempre la mia grande passione. Sono stata anche fortunata, perché dopo “Ratataplan” debuttai con Gino Bramieri addirittura al Sistina in “La vita comincia ogni mattina” per la regia di Pietro Garinei. Una serie di circostanze fortunate, perché il primo film fu un grande successo, poi il Sistina, subito dopo in tv con Sanremo… ero molto curiosa e volevo provare a fare di tutto. Tra le altre cose incisi anche un disco. Senz’altro il teatro è casa mia, la mia più grande passione. Poi ci sono dei periodi, come per esempio quando feci “Medico in famiglia”, che lavoravo più per la tv… che ti devo dire? E’ talmente variabile il nostro mestiere, però hai ragione: ci sono sempre stata! (ride, ndr)
Conta più la bravura o la fortuna?
Guarda, non vorrei fare la noiosa che si lamenta, però lasciami dire che in un Paese come il nostro la bravura spesso è un optional. Molte volte è più importante la conoscenza. Io non conosco nessuno e questa è sempre stata la mia forza. Anche nei momenti bui, non avere nessuno a cui appoggiarmi me ne ha data tanta. Questa situazione, purtroppo, consente che nel teatro ci siano dei gran cani, che non dovrebbero nemmeno entrarci, eppure ci sono, come in televisione e nel cinema. Quindi sì, conta moltissimo la fortuna, soprattutto chi conosci. Però è anche vero che se io, per esempio, che faccio questo mestiere da una vita, sono riuscita a portarlo avanti per così tanti anni, forse la bravura o la professionalità alla lunga pagano.
Quello che hai detto mi ricorda la frase che mi disse un giovanissimo attore che recentemente ha lavorato con te: “Edy è un treno!”. Ho sempre avuto anche io questa sensazione, di una professionalità molto seria.
Dopo mi dici chi è questo attore! (ride, ndr) Mah! Forse incidono le mie radici milanesi. Tutto quello che faccio cerco di farlo nel migliore dei modi, lavorando sodo e poi l’istinto, la creatività, la passionalità che ci vuole in questo lavoro, arrivano su una base tecnica ben costruita. E’ un piacere mio lavorare molto sulle cose da fare… quindi c’è sicuramente questa componente nordica che però è stata fortunatamente smussata e ammorbidita dai tanti anni di vita a Roma. Devo dire che questa è stata la città che mi ha rilassata, che mi ha tolto quell’eccesso di precisione che avevo e questo connubio penso che sia perfetto. Ma chi è questo attore che ti ha detto così di me? Sono curiosa… (ride ancora, ndr)
A proposito, insegni ancora ai ragazzi nella Fonderia delle Arti?
Certamente, anche all’Accademia Senza Tempo. Purtroppo la loro situazione è pessima, direi terribile. Quando io ho debuttato a vent’anni, c’era tanto lavoro, tournèe che duravano sei mesi. Quando vedo i miei ragazzi delle scuole, che comunque subiscono una normale e giusta selezione naturale, quei pochi che potrebbero avere un futuro teatrale o cinematografico si trovano in una situazione in cui lavoro non c’è. Escono dalle scuole e si trovano allo sbaraglio. I casting, ormai, non esistono più perché arriva “il suggerimento” dall’alto, le agenzie cinematografiche sono ormai stracolme e non prendono più i nuovi. E’ un momento storico pesantissimo.
Edy, ma non saranno troppi gli aspiranti attori?
Sì, sono anche troppi e ti dirò che molti sono ignoranti, nel senso che ignorano il mondo in cui vorrebbero lavorare, non si documentano, vanno pochissimo a teatro. E’ una generazione molto superficiale, molto televisiva. E’ sicuramente un periodo molto strano.
Avrai sicuramente letto in questi giorni della festa organizzata a Firenze in onore di Francesco Nuti, con cui tu hai lavorato in “Madonna che silenzio c’è stasera”. Una storia triste quella di Nuti. Quanto poco ci vuole nel mondo dello spettacolo a essere accantonati?
Oh, niente, pochissimo! Se in quel momento la tua faccia non va più, non gliene frega niente a nessuno se hai alle spalle venti anni di carriera, se hai fatto cose importanti! Figuriamoci con Francesco, che ha avuto tutti quei problemi! E’ un mondo in cui non esisti! Soprattutto se non appari in televisione. Ti spiego. Dopo aver lavorato in “Medico in famiglia”, ho fatto altre cose, continuo a lavorare tranquillamente in teatro, ma tanta gente pensa che dopo quella fiction sia sparita, morta, non abbia fatto più niente. Esisti perché sei in televisione e puoi fare qualsiasi stupidaggine, ma esisti!
Veniamo allo spettacolo con cui sei in scena in questi giorni al teatro della Cometa di Roma: “La vita a rate”, insieme a David Sebasti e a Paolo Triestino. Il tuo personaggio è una donna priva di emozioni vere, vive emozioni di plastica, potremmo dire. Come è il tuo rapporto con questo personaggio e con questo testo di Triestino, forte e, immagino, difficile?
Bella domanda! In questo spettacolo è stato difficilissimo riuscire a trovare una verità, con un personaggio di plastica come hai ben detto, privo di emozioni vere. Per un attore vuol dire essere sempre sul filo, perché nel momento in cui sei troppo esagerata, la strada è troppo semplice. Nel momento in cui provi emozioni, questo non funziona con quel personaggio. Quindi, è un lavoro durissimo ma interessantissimo. Paolo (Triestino, ndr) ci ha davvero massacrato, ma sono contenta di questo, anche perché lo spettacolo sta crescendo di giorno in giorno. E’ un personaggio difficilissimo, pieno di sfumature che solo noi sappiamo, lavorandoci battuta su battuta. Basta un fiato in più e sbagli, se appaiono delle emozioni il personaggio non è più credibile. Sono felice perché questo è un lavoro che mi ha arricchita personalmente. Con Triestino ci seguivamo a vicenda da anni ed è arrivato il momento giusto per lavorare insieme!
Cosa è rimasto in te di quella ragazzina col cespuglio di capelli rossi in testa?
Il cespuglio ce l’ho ancora, molto accorciato ma ce l’ho! Cosa vuoi che sia rimasto? Spero che sia rimasta la capacità di stupirmi, di emozionarmi da morire ogni volta che vado in scena. La semplicità senz’altro, non mi sento cinica rispetto alla vita, al lavoro, questo no.
Il nostro giornale si occupa di Cultura a trecentosessanta gradi. Quale pensi che sia l’importanza del teatro e dello spettacolo in genere nella cultura di una nazione?
Se ricordi, nello spettacolo che stiamo facendo in questi giorni (la vita a rate, ndr), c’è una battuta in cui si dice, riguardo al costo del teatro, della poesia: “è fuori catalogo, ha ancora il prezzo in lire”. Non credo che possa morire, perché come la pittura, la musica, nasce con l’uomo. Però, effettivamente, il suo ruolo è in crisi. A parte le problematiche pratiche che deve affrontare oggi una famiglia se decide di andare a teatro e che capisco perfettamente. Si spendono soldi, e questo oggi frena molto, non può essere altrimenti. Poi è certo che a livello culturale siamo in un periodo di decadenza totale. Tu vedi che le prime cose che vanno a tagliare sono quelle fondamentali: cultura, scuola, sanità… una follia! E’ un insieme di fattori. Mettici anche che intere generazioni nascono e subiscono un condizionamento fortissimo dalla televisione e da quello che propone. Ma cosa può importare di andare a scoprire il teatro a chi non conosce altro perché da sempre gli è stato proposto un certo modello? Uscire, condividere un’emozione è straordinario. Però, c’è anche da dire che a volte vedi delle cose orrende e la gente che ha speso trenta euro per quella sera, la perdi per sempre. Ora sta cambiando, ma fino a qualche anno fa c’era l’abitudine di usare i nomi televisivi per fare teatro. Attenzione, non attori, ma personaggi televisivi per fare cassetta e si sono viste delle “porcate” clamorose. Ecco, ognuno deve fare il suo mestiere. Un sistema sbagliato che non fa affezionare il pubblico, lo fa scappare. I produttori hanno provocato danni incalcolabili. Per non parlare delle matinèe per i bambini… rappresentazioni spesso orribili e spettatori che non metteranno mai più piede in un teatro.
La domanda finale che faccio a tutti: c’è un sogno alto nella tua vita, qualcosa che se ci pensi ti emoziona? Spara alto altrimenti non vale.
Fino a qualche anno fa il sogno era di andare agli Oscar, il sogno di tutti gli attori. Da piccola regolavo la sveglia alle tre di mattina per seguire la serata. Ora che questo sogno non c’è più, chiaramente (rid, ndr), ti posso dire che il sogno è quello di arrivare a una bella età, di quelle importanti, di diventare una bella vecchia, serena riguardo alla mia vita, e di arrivarci continuando a recitare! Sì, mi ci vorrei proprio vedere così! Più in alto non vado, sono realista.
Paolo Leone
• Si ringrazia Gabriele Gelsi per le fotografie