Se parli di Italia-Germania non puoi fare a meno di pensare al gol di Gianni Rivera. Quella carezza in beffardo contropiede al portiere resta scolpita nelle nostre menti, forse più dell’urlo disumano di Marco Tardelli a Madrid o del rigore di Grosso sotto il cielo di Berlino. Italia-Germania 4-3 è cinema e letteratura, storia del calcio in pillole di poesia. Immagini scolpite in bianco e nero che neanche l’alta definizione delle partite di oggi può cancellare. Allora, ad alimentare rivalità e ardori belligeranti, c’erano di mezzo ancora i ricordi della guerra e degli anni della sofferenza della ricostruzione, portata avanti con orgoglio italico fino alla rinascita. Oggi è scontro politico sull’Europa, più che sugli Europei: siamo ancora amici-nemici, vicini per costrizione pro-Euro, ma lontani per storia, tradizioni e senso della nazione.
Sabato Italia e Germania si ritroveranno ancora l’uno contro l’altra: calcisticamente siamo il loro incubo peggiore anche se, stavolta, qualcosa è cambiato. Loro sono i campioni del mondo, i più forti, gli invincibili; noi una nazionale operaia, tutta cuore e grinta, con pochissimo talento. Eppure questi azzurri, orfani della classe cristallina di Totti, Pirlo o Del Piero, hanno qualcosa di straordinario che scorre nelle loro vene. Forse, per una volta, il talento vero, quello che ti fa vincere le partite, non è nel rettangolo verde di gioco, ma appena fuori, in panchina. C’è la lucida follia di Antonio Conte dietro queste vittorie ottenute gettando il cuore oltre l’ostacolo, aggredendo e abbaiando quando, di fronte a cani enormi e dal pelo splendente, la ragione consiglierebbe di rintanarsi nella cuccia. E così ci siamo riscoperti e ritrovati forti, spietati, affamati di vittoria. Se non possiamo paragonarci, per tecnica ed eleganza calcistica, a Spagna, Germania e Francia, possiamo accostarci a cuor leggero all’Islanda, la sorpresa delle sorprese. I telespettatori si sono entusiasmati per quel grido tribale dei tifosi al seguito della squadra, un boato ritmato che farà scuola. E’ chiaro i numeri sono diversi, diversissimi: l’isola dei ghiacci ha appena un centinaio di calciatori professionisti, significa che uno su quattro è stato convocato per questo Europeo e, quindi, è questa la magia, che se impari bene questo mestiere hai clamorose possibilità di carriera. L’Islanda ha 332mila abitanti e ottomila di loro erano allo stadio di Saint-Etienne. Quelli del grido carnale e tribale, dello scambio di energia e vigoria. Qualcosa del genere, come filtra dai resoconti dei fedelissimi di Conte, deve accadere anche nel nostro spogliatoio, prima e dopo una partita.
E, quindi, in vista della partita Italia – Germania, esplode nella mente, e non potrebbe essere diversamente, il discorso di Al Pacino ai suoi giocatori di football in “Ogni maledetta domenica”, film del 1999 diretto da Oliver Stone. “In questa squadra si combatte per un centimetro…”. “Ci difendiamo con le unghie e con i denti per un centimetro…”. “Perché sappiamo – urlava ancora agli Sharks il coach Tony D’Amato – che quando andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale, allora, farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta. La differenza tra vivere e morire…”. Perché una partita di calcio, in questo Paese, può ancora fare miracoli: è forse l’unica onda emotiva in grado di farci sobbalzare tutti insieme, nello stesso istante, in uno slancio che non ha spiegazione logica, a meno che non si voglia dare ragione a Pier Paolo Pasolini quando diceva che “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro”. E allora non resta che aspettare e prepararci all’ennesima sfida, allo spettacolo più atteso, aggrappati al nostro fuoriclasse, l’unico che può vincere e farci vincere contro tutto e tutti.
Aggiornamento: L’Italia di Antonio Conte ha perso ai rigori con un punteggio di 6 a 7.