Il ritorno dei fratelli Wachowski tra romanticismo fiabesco e sci-fi scanzonata. La trama di con “Jupiter – Il destino dell’universo” e la recensione.
Dopo il primo film della trilogia ipercinetica e avveniristica di “Matrix” i fratelli Wachowski divennero alfieri della rivoluzione post-moderna della narrazione-zero. Tra techno danze e ralenti derivati dalla tradizione nipponica, l’ambizioso film-manifesto che alterna bullet-time e profonde riflessioni filosofiche era assurto a prototipo del cinema contemporaneo d’evasione. Gli altri due episodi non ebbero la stessa fortuna critica, ma furono comunque in grado di innovare il linguaggio cinematografico della fantascienza classica, innervandola con dosi massicce di orientalismi e mitologie pop. Poi, il lento declino. A seguito del dimenticabile “Speed Racer”, i due registi decidono di contaminare, intorno al fil rouge della reincarnazione, il leitmotiv dello spiritualismo new age ad un’epica visionaria che si accavalla su sei storie distinte, ambientate in sei epoche diverse. Stiamo parlando del loro progetto più ambizioso, “Cloud Atlas”, che ha contribuito a dividere in modo più netto detrattori e fanatici dei fratelli cineasti. Sono lontani (per fortuna) i tempi di “Bound – torbido inganno”, fallimentare esordio che tentava un approccio posticcio (scimmiottando Tarantino) al crime movie. E siamo a “Jupiter – Il destino dell’universo”, film la cui lunga genesi, iniziata durante la fase di lavorazione di “Cloud Atlas” ben rappresenta il faticoso lavoro produttivo e di scrittura che sta dietro quest’ultimo, complesso progetto. Cosa buona e giusta è la scelta di non considerare materiale preesistente per volgerlo all’ennesimo reboot o remake, ma di orientarsi verso una sceneggiatura originale e una creazione ex novo di un universo sconfinato popolato da una pletora di razze aliene, di mutanti, umani corrotti, strani ibridi animali e robot-burocrati. Peccato che, fatte salve le buone intenzioni, i fratelli Wachowski fanno naufragare ogni aspettativa in un chiassoso luna park space-operistico appesantito da stucchevoli sfumature romantiche (molto) young-adult. “Jupiter – Il destino dell’universo” vorrebbe strizzare l’occhio alla fantascienza anni ’80 (complici anche gli armamentari dei protagonisti, come gli stivali anti-gravità o le pistole vintage), ma ha il grave difetto di prendersi troppo sul serio, stemperando la sagacia parodistica di “Guardiani della galassia” o il demenziale burlesque de “Il Quinto elemento” attraverso modesti siparietti volutamente kitsch se non dichiaratamente trash. La storia di Jupiter (Mila Kunis) inizia come un romanzo d’appendice, con l’eroina immigrata senza identità partorita in terra di nessuno dalla madre rimasta vedova. Costretta a lavare bagni per sopravvivere, conduce un’esistenza miserabile con una famiglia allargata di profughi russi, finchè un giorno giunge sulla terra il guerriero geneticamente modificato Caine Wise, messo sulle tracce della ragazza da Balem, alieno appartenente al nobile lignaggio degli Abraxas. Scelta per ricevere in dono (dote) un’eredità genetica che metterà fine al contrasto tra regnanti in rivolta, affronterà il suo destino tribolato al fianco del fedele protettore (e poi amante) Wise (Channing Tatum), mezzo uomo e mezzo lupo. Frullando maldestramente frivole romanticherie alla “Twilight” e riciclando estetiche e visioni da “Maze Runner”, “Hunger Games” e “Divergent”, il settimo lungometraggio dei fratelli Wachowski non è mai del tutto originale, anche se riserva attrazioni pirotecniche di buon livello e qualche sequenza d’azione particolarmente riuscita. Attraversato da contaminazioni continue (si va dagli intrighi di palazzo di “Dune” allo sfarzo principesco di “Labyrinth”, fino all’improbabile cameo di Terry Gilliam che richiama l’inferno burocratizzato di “Brazil”) “Jupiter” è cinema di divagazione onirica senza confini, né di logica, né di buon senso, perché sfrutta esclusivamente la potenza frastornante degli effetti speciali come unico motore dell’azione in cui far girare senza sosta la giostra impazzita. Alla lunga prende il sopravvento la noia, complice una scrittura blanda e poco incisiva, personaggi monodimensionali da feuilleton spaziale e la poco accattivante estetica a mezzo tra il fantasy edulcorato e la space-opera nostalgica.
Vincenzo Palermo