La Notte della Taranta è divenuta un vero e proprio fenomeno culturale e folkloristico in grado di calamitare nel Salento più di centocinquantamila persone ogni anno, grazie a un connubio vincente tra Storia, musica, danza, arte, magici paesaggi e tradizione. Molto conosciuto in Europa, il Festival, che celebra uno dei balli più antichi, famosi e imitati nel mondo (non è una esagerazione), si è evoluto negli anni fino a trasformarsi in una festa itinerante che tocca ben diciassette piazze salentine. Durante ogni concerto le sonorità figlie della tradizione di quei luoghi rivivono infiammate dalla stessa passione di un passato non troppo lontano, fondendosi con diversi generi musicali, dal rock al jazz, per dar vita a sincretismi di note e atmosfere sorprendenti. Nel 1998, anno di nascita di questo appuntamento speciale e tutto italiano, “regina” della pizzica era la provincia di Lecce ma, pian piano, il successo e la popolarità ottenuti sono diventati il lasciapassare per un viaggio annuale che tocca molte delle principali città pugliesi. Quest’anno la manifestazione si è aperta il 5 agosto e terminerà il 22 agosto. La serata finale, con il concerto evento che chiude la manifestazione, si terrà a Melpignano, in provincia di Lecce e uno degli ospiti più attesi è Luciano Ligabue che canterà, oltre ai suoi successi, anche dei brani in dialetto salentino. Per tutti quelli che non potranno essere in Puglia per assistere alla Notte della Taranta, ma sono curiosi di vedere lo spettacolo, niente paura; Rai 5 e Radio 2, dalle 22.30, trasmetteranno in diretta tutta la serata. Questo è il presente di una danza che, per sua natura, non conosce confini né etichette, le cui movenze cadenzate hanno un particolare significato, una tradizione evolutasi nel tempo e una precisa origine. Per quanti vedranno la Notte della Taranta dal vivo, o la seguiranno attraverso le dirette, o per chi è curioso di saperne di più, stiamo per iniziare un viaggio nel tempo, tra musica, ambienti rurali, leggende, teorie scientifiche ma, soprattutto, nel cuore delle donne, nella loro vita difficile che trovava, attraverso il ballo, uno sfogo, “l’ossigeno” per affrontare le asperità quotidiane.
Le domande che ci vengono in mente sono tante: come è nata la Pizzica? Chi la danzava e perché? Come veniva ballata? Come si è evoluta? Davvero veniva “scatenata” da un ragno? Perché questo fenomeno ha interessato un grande studioso come Ernesto De Martino (il quale, indirettamente, attraverso le sue ricerche, ci accompagnerà in questa nostra scoperta o riscoperta della Pizzica)? Cominciamo cercando di fare chiarezza nella terminologia, tenendo conto, comunque, del fatto che sono stati coniati alcuni nuovi termini su cui molti studiosi non sono d’accordo e che le differenze tra Pizzica, Taranta e Tarantella, se non sono viste nell’ottica scientifica sia da un punto di vista folkloristico che musicale, possono portare a una certa confusione: “Tarantella” è una parola con cui si può designare un’intera famiglia di balli del Sud d’Italia; parliamo, quindi, di un territorio vasto e di tradizioni articolate che vanno dalla Campania alla Sicilia. Dal punto di vista musicale il fraseggio è, solitamente ma non solo, in 6/8, dunque si tratta di balli piuttosto ritmati. Per quanto riguarda il significato del termine, in genere è ricollegato a “taranta”, ovvero la parola dialettale, sulla cui origine si discute, con cui veniva indicato il ragno in genere in quanto, come spiega Ernesto De Martino nel celebre “La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud”, (Il Saggiatore, 1961), tale termine non corrisponde ad alcuna specie animale precisa. “Pizzica” e “taranta” rientrano in questa grande famiglia, ma ci sono delle peculiarità che danno a queste danze un carattere proprio, una sorta di “personalità musicale”. Il termine “taranta” è quello su cui, forse, si dibatte di più: pizzica e taranta sono la stessa cosa? Come abbiamo appena visto, “taranta” significa ragno. Il violinista Luigi Stifani (1914-2000), di cui parleremo tra qualche riga, coniò il termine “pizzica tarantata” per riferirsi alla musica usata nei cosiddetti “esorcismi”, ovvero nei rituali che servivano a far scomparire gli effetti del morso del ragno. Inoltre “taranta” può indicare anche il rituale “terapeutico” vero e proprio, ricomprendendo, ovviamente, la musica che di esso è protagonista. Il nome “pizzica” racchiude, a sua volta, un insieme di danze che hanno la stessa matrice: la “pizzica pizzica”, danza ben cadenzata da fare in coppia, in cui il movimento circolare prende tutto lo spazio a disposizione e che compare nelle fonti dal XVIII secolo. Non è esclusivamente un ballo di corteggiamento, però la donna tiene in mano un fazzoletto il quale, nei tempi antichi, serviva per invitare l’uomo a danzare. Avrete certamente notato che le danzatrici moderne usano portare i capelli sciolti, simbolo di femminilità passionale e la loro postura è sempre eretta ma morbida, mai forzata. Le coreografie prevedono passi svelti, decisi, piccole corse, improvvise pause che rientrano nel gioco di seduzione. L’abbigliamento, poi, prevede delle gonne lunghe e ampie, altro emblema femminile ma anche di libertà donata dalla musica, da far volteggiare o tenere con le mani. L’uomo, invece, effettua movimenti più netti e tesi a dimostrare la virilità e la forza; la “pizzica scherma” (meglio nota come “danza delle spade”, anche se il nome è improprio, poiché non vi sono armi né vere né finte nella coreografia) è un ballo maschile presente nelle zone di Lecce, Taranto e Brindisi in cui si mimano i movimenti di un duello con i coltelli e la cui origine è rintracciabile nelle società segrete e nell’ambiente della malavita organizzata. Dunque pizzica e taranta hanno un legame fortissimo, quasi inscindibile. Teniamo conto del fatto che la grande famiglia della Tarantella ha all’interno molte varianti ed evoluzioni. Per questo motivo scindere in maniera puntuale un ballo dall’altro, da un punto di vista coreografico e musicale, non è sempre un’impresa facile persino per l’orecchio più allenato. Un ultimo termine che ci interessa analizzare è “ronda”, cioè il cerchio di musicisti e spettatori che si forma intorno ai ballerini e che è, da sempre, fondamentale sia nella danza che nel fenomeno del tarantismo.
Proprio di quest’ultimo andremo a interessarci ora. Abbiamo visto che la Notte della Taranta rappresenta la modernità che si intreccia in maniera inestricabile al passato, la danza, il ritmo e la passione che sposano il folklore; abbiamo osservato il filo rosso che si dipana dalla pizzica alla taranta senza soluzione di continuità, ma non possiamo dimenticare quanto questi elementi sfiorino, nel contesto legato alle danze di cui parliamo, anche la patologia. Il tarantismo era costituito da una serie di manifestazioni fisiche e psichiche che venivano attribuite al morso di un ragno, o meglio, due specie diverse di essi, il Latrodectus tredecimguttatus (conosciuta come malmignatta o vedova nera mediterranea) e la Lycosa tarentula: il primo è velenoso, mentre il secondo è innocuo. La causa di quello che veniva definito dagli studiosi come un fenomeno di possessione, di malessere fisico e psicologico, però, non stava nei morsi dei ragni che, si scoprì, erano immaginari, bensì in una vera e propria crisi psichica di tipo isterico. La terapia consisteva in temi musicali tradizionali eseguiti da suonatori che si disponevano con strumenti come i tamburelli intorno al tarantolato, il quale inizia a danzare ossessivamente ripetendo dei movimenti emblematici del morso della tarantola. Dal punto di vista psicopatologico, quindi, siamo di fronte a una fase in cui lo stato di coscienza è fortemente alterato, una sorta di trance che si mescola a prostrazione e apatia. Questo fenomeno è attestato non solo nell’Italia meridionale, ma anche in Spagna fino a non molti decenni fa, benché possa definirsi praticamente estinto o, comunque, non vi sono prove della sua esistenza oggi. Una menzione particolare va alla Sardegna, in cui è stato osservato un fenomeno molto simile a quello del tarantismo, estinto anche questo, cioè l’argismo (da “argia”, che significa variopinta ed è il nome sardo della tarantola. In tal caso l’evento del morso del ragno, il Latrodectus, è provato e scatenerebbe un forte malessere psicologico caratterizzato da angoscia, depressione, agitazione. Il tarantismo si è sviluppato nell’ambiente agricolo, in un contesto rurale molto complesso, peculiare, rigido. Il rito veniva praticato all’inizio dell’estate ed era un momento di aggregazione intorno alla persona sofferente per aiutarla a ritrovare se stessa. Di solito si trattava di una donna giovane, in età da marito la quale, per un periodo di tempo, interrompeva la normale e faticosissima quotidianità, ricevendo le attenzioni, le “coccole” se vogliamo, di chi le stava intorno. La terapia coinvolgeva l’aspetto musicale-ritmico, ma anche coreutico e cromatico. Soffermiamoci un momento su quest’ultimo aspetto davvero interessante, poiché il simbolismo dei colori è molto complicato, ma possiamo dare delle linee guida generali. Il colore principale del rito è il bianco che ricorda la purezza e può rappresentare il ritorno in sé, il passaggio dalla confusione allo stato di coscienza, insomma il rituale nella sua totalità visto come una specie di iniziazione annuale.
La tarantolata, poi, nel momento di possessione, di danza furiosa della pizzica è attratta dagli abiti o dagli oggetti che recano i colori del ragno e su essi si scaglia in modo violento. Questo animale, da sempre, è simbolo di bene e male a seconda della cultura a cui si fa riferimento. La valenza negativa è più sentita, forse, per la repulsione che esso suscita, insieme alla paura del veleno mortale. E’ pur vero, comunque, che la taranta poteva essere identificata anche in uno scorpione e talvolta perfino un serpente. La terapia terminava nell’istante in cui la donna preda dell’immaginario veleno batteva il piede in terra dimostrando, così, di aver schiacciato e cacciato il ragno dal suo corpo e dalla sua anima. In poche righe abbiamo gettato un fascio di luce su un fenomeno che non può essere (e non è stato) analizzato solo dal punto di vista medico, ma anche mitologico, religioso, antropologico e l’elenco non finisce qui. La Notte della Taranta, dunque, non è che la punta dell’iceberg di un microcosmo antico, radicato alla terra, passato eppure ancora visibile tra le pieghe del mondo moderno, tra i passi rapidi e le movenze decise di una danzatrice di pizzica dei nostri giorni. Il più grande studioso del fenomeno del tarantismo, come abbiamo accennato, fu l’etnologo Ernesto De Martino (1908-1965), che intraprese una spedizione nel Salento del 1959 i cui risultati sono nel volume tuttora in commercio “La terra del rimorso”, opera dalla quale nessuno che si interessi al tarantismo può prescindere. Tutto ciò che noi sappiamo sul fenomeno del tarantismo lo dobbiamo a lui, così come gli studi sulla magia e sui simboli legati alle terre del Sud d’Italia
Durante il suo viaggio De Martino venne accompagnato da Luigi Stifani (1914-2000), barbiere e musicista in grado di suonare alla perfezione violino, mandolino e chitarra e presente in molti rituali legati al tarantismo. Stifani usava riferirsi con nomi precisi ai vari tipi di pizzica da lui suonati durante gli esorcismi; ogni motivo suscitava determinate emozioni nella tarantolata e in chi la guardava e ogni caso prevedeva una scelta ponderata del brano da eseguire. Abbiamo parlato della “pizzica tarantata”, in cui il ritmo è molto più veloce e giocata su tonalità in minore, ma vi era anche la “pizzica indiavolata” in La maggiore, per esempio. Tutte queste sonorità sono inevitabilmente confluite nella pizzica che conosciamo oggi e che viene interpretata, seppur con diverse sfumature, durante la notte della pizzica. Le movenze, i passi, le coreografie insomma, sono cambiate, hanno subito influenze e sono state codificate in modo diverso, così da venire incontro anche ai gusti del pubblico, ma l’eco dell’antico rito del tarantismo è ben riconoscibile tanto nei ritmi quanto nella danza. Rispetto alla danza tradizionale già analizzata, la pizzica “contemporanea” è più delicata nella gestualità, meno prorompente nel rapporto con lo spazio circostante. I passi e le espressioni sono impostati, eleganti, hanno perso la matrice contadina e non è inusuale vedere figure che ricordano molto quelle del flamenco. Non c’è più la ronda, si tratta di uno spettacolo sotto ogni punto di vista, dunque ai danzatori interessa stabilire un contatto visivo con il partner e con gli spettatori, privilegiando movenze che sfruttino la possibilità di mimica misteriosa, affascinante, seducente, ma diretta. Possiamo, dunque, vedere con i nostri occhi una rinascita della pizzica (o neo-pizzica) dagli anni Settanta in poi e la Notte della Taranta ne è una prova tangibile. Questo ballo entrato nel folklore salentino è stato riletto, reinterpretato, ma ciò non deve farci cadere nell’errore di supporre che possiamo parlare anche di un neotarantismo. Il motivo è semplice e intuibile: il fenomeno del tarantismo non esiste più; non vi sono più i presupposti, il tenore di vita è mutato insieme alla condizione della donna, non più subordinata all’uomo in una severa struttura patriarcale, né repressa e neppure schiacciata dal duro lavoro nei campi senza possibilità di sfogo, né diritti.
Potremmo, forse, riferirci al neotarantismo come nuova evoluzione musicale, una riscoperta di atmosfere e sonorità del passato (benché, ne sono certa, nessuno le abbia mai dimenticate nel vero senso della parola), ma in tal caso dobbiamo essere consapevoli del fatto che questo neologismo svuota quasi del tutto di significato il termine originario per indicare qualcosa di diverso, seppur correlato al concetto principale. A proposito di riscoperta: la rilettura dei motivi musicali e della stessa pizzica ha l’indubbio merito di preservare una tradizione fortemente radicata nel Sud, un patrimonio artistico, culturale, storico e antropologico che si tramanda di generazione in generazione e, nel nuovo secolo, è ormai diventato eredità dei tanti giovani che, per fortuna, vi si appassionano. Forse alcuni tra i più anziani storceranno il naso nel sentire ritmi che si distanziano da quella che loro reputano la pizzica “pura” e, magari, preferirebbero che non si toccasse una “reliquia musicale” del passato. Di fatto, però, le sonorità diverse che confluiscono in questa danza e nella sua musica non fanno che arricchirla senza toglierle neppure un briciolo della già fortissima personalità, senza sradicarla davvero dal passato e dalla sua essenza primari e questo è un altro merito della riscoperta della pizzica da tenere a mente. Non bisogna temere il nuovo, dunque, ma permettere ai giovani di avvicinarsi alle loro origini, di osservarle da vicino e studiarle con consapevolezza. Pensiamo al lunghissimo percorso che la pizzica e il tarantismo hanno fatto fino a noi, sfidando perfino i pregiudizi: la nascita del tarantismo stesso, infatti, si radica anche nel mito, ovvero nel tempo senza tempo che fu di Aracne e Dioniso. La prima fu una fanciulla dall’innato talento per la tessitura, che osò sfidare perfino la dea Atena, pagando la sua tracotanza con la trasformazione in ragno. Aracne simboleggia l’uomo nel duello infinito con il divino e la danza delle tarantolate, per riflesso, mimerebbe proprio questa sfida.
Dioniso, invece, è la figura centrale dei riti e dei culti a lui dedicati nella Magna Grecia e la cui eco sarebbe sopravvissuta proprio nel fenomeno del tarantismo. Da notare come il punto di vista prettamente mitico si fonde con quello medico ed etnico e quanto sia difficile operare una cesura netta tra le varie discipline. C’è, però, un ultimo punto di vista da prendere in considerazione: la Chiesa non approvava un rituale di questo tipo, considerato incontrollabile, pagano, basato su superstizioni e in cui le donne si comportavano in maniera definita “oscena”. Si tentò, così, di cristianizzare il rito, “affidando” le vittime del veleno all’intercessione di San Paolo, ovvero al santo che era sopravvissuto al morso di un serpente (Atti degli Apostoli, 28:3-5). Il culto cristiano, però, non ebbe grande popolarità e non riuscì davvero ad amalgamarsi con la controparte pagana. Oggi rimane, il 29 giugno, la Festa di San Paolo a Galatina, in cui la pizzica e il canto hanno sostituito i balli sfrenati delle tarantolate che venivano lì portate per ricevere la grazia. Secondo la leggenda San Paolo, durante il viaggio di evangelizzazione, sostò proprio a Galatina e, per riconoscenza nei confronti dell’uomo che lo aveva gentilmente ospitato, gli donò il potere di guarire le persone vittime del morso della tarantola. Religione, mito e leggenda hanno creato, nella splendida terra del Salento, una magia che si rinnova ogni anno attraverso la danza, la musica, il corpo e l’anima delle donne. Siamo vittime consapevoli e felici del sortilegio infinito delle note che ci pungono e ci spingono a lasciarci trasportare, veleno di vita e di passione lungo una notte intera. E’ l’incantesimo della Notte della Taranta.
Bibliografia dell’articolo e siti utili
Francesca Rossi