Don McCullin è stato uno dei più grandi fotoreporter della storia del giornalismo. Con la sua fotocamera ha immortalato momenti tragici verificatisi sui fronti delle principali guerre combattute nel secolo scorso, ma quando si fa il suo nome nella nostra mente di solito appare un’immagine che ha il predominio sulle altre e che dal Biafra ha fatto il giro del mondo: il protagonista della foto è un ragazzo albino (immagine sulla sinistra) che, ridotto pelle e ossa, scuote un barattolo di carne in una scatola con una scritta francese. Quello scatto aveva un senso in quanto oltrepassava il giornalismo e la fotografia per raccontare lo scenario politico, inquadrando il contesto socioculturale di quel Paese. Da allora sono passati molti anni e, anche se le guerre continuano, il modo di raccontarle è cambiato. I vari Robert Capa, Nick Ut, Ryszard Kapuścińsk o Tiziano Terzani, fautori di un giornalismo più lento ma anche più attendibile, sembra stiano lasciando il posto, soprattutto in quei territori inaccessibili alla stampa e ai media, al Citizen Journalism dei social network. Sembra! In realtà per contestualizzare una notizia servono l’esperienza e la specializzazione del reporter.
Ne sa qualcosa Alfredo Macchi, giornalista con la valigia sempre pronta, e conduttore del Tgcom24 Nuovo Giorno, canale televisivo italiano prodotto da Mediaset. Come inviato di Mediaset, Macchi ha seguito alcuni tra i più importanti eventi degli ultimi anni, dalla guerra in Kosovo al dramma delle Torri Gemelle, dai conflitti in Afghanistan e Iraq alla guerra in Libano. Ha vinto numerosi premi e ha approfondito l’evolversi delle Primavere Arabe, raccogliendo quanto appreso nel libro-inchiesta “Rivoluzioni Spa. Chi c’è dietro la primavera araba” (Editore Alpine Studio). «Con un intenso lavoro d’indagine, ho cercato di capire chi ci fosse dietro le rivolte dei Paesi Arabi – spiega Macchi -. E ho scoperto che in realtà dietro questi movimenti a volte c’erano grandi e piccole potenze. Molti attivisti sono stati aiutati da alcuni personaggi che hanno svolto dei ruoli decisivi».
Quali?
Gli Usa hanno sostenuto la parte laica (in particolare i movimenti studenteschi e le organizzazioni umanitarie) soprattutto in Egitto e Tunisia, addestrando in parte quei ragazzi all’utilizzo delle nuove forme di tecnologie, soprattutto dei social network.
Perché?
Ho scoperto che erano stati realizzati dei report da analisti americani, i quali suggerivano proprio a Washington di far cadere i regimi di questi Paesi, che erano loro amici ma che sarebbero stati rovesciati dalle rispettive popolazioni nell’arco di dieci anni; quindi era necessario sostenere e promuovere le rivolte per avere dei referenti affidabili nei futuri governi; altrimenti le dittature preesistenti sarebbero state spodestate in seguito dai gruppi estremisti e religiosi. Inoltre, sono arrivati contributi economici soprattutto da Arabia Saudita e Qatar, un emirato che sta acquisendo sempre più potere nelle vicende internazionali. Questi emiri hanno sostenuto economicamente i Fratelli Musulmani, per aiutarli a vincere le elezioni che ci sono state in Egitto e Tunisia, e poi hanno tentato di fare la stessa cosa anche in Libia. Diversi emiri hanno addirittura inviato personalmente aiuti concreti, cioè armi e munizioni; il Qatar ha mandato anche i suoi soldati in Libia che hanno facilitato i ribelli nella conquista di Tripoli, aiutandoli a vincere su Gheddafi. Il comandante in campo delle forze militari del Qatar ha ammesso che i suoi uomini hanno partecipato ai combattimenti costruendo anche un aeroporto militare, che è servito ai ribelli a bypassare la città di Sirte e a prendere alle spalle Tripoli.
Si potrebbe parlare o scrivere di “Primavera” anche per la Turchia?
Certo. Si può parlare di Primavera Turca. Nelle piazze di Istanbul e di Ancara ci sono gli stessi giovani che ho visto in piazza Tahrir, a Tunisi e in Libia. Gente che chiede gli stessi diritti. La Turchia però non è una dittatura, come l’Egitto di Mubarak o la Tunisia di Ben Alì o la Libia di Gheddafi. La Turchia – dove ci sono libere elezioni – era un modello per i Paesi che hanno vissuto le Primavere Arabe, i quali sulla base dell’esperienza turca credevano fosse possibile la nascita di Governi Islamici Moderati che accettassero le regole della democrazia e del mercato e che fossero alleati degli americani.
Con l’inizio delle rivolte in Turchia anche questo modello è fallito…
Sicuramente la Turchia vive una frattura molto forte. Da un lato c’è il modello religioso, dall’altro quello laico che si scontra contro l’islamizzazione moderata del Paese imposta da Erdoğan.
Parliamo di giornalismo. Lei elogia particolarmente il giornalismo anglosassone. Quali sono i limiti e le qualità del giornalismo anglosassone?
Nel modello anglosassone il giornalista è un po’ spettatore e racconta quello che vede, dando sempre conto di tutti punti di vista. Purtroppo in Italia, soprattutto negli ultimi anni, è prevalso un giornalismo partigiano, cioè si prende solo una posizione senza tener presente dei vari punti di vista. Negli anni scorsi il modello anglosassone è entrato in crisi, perché il modo di pensare del giornalista ha inciso più della notizia stessa. Oggi c’è bisogno di contestualizzare i fatti.
Un consiglio ai giovani che vogliono intraprendere questa professione…
Consiglio ai giovani di studiare molto e di specializzarsi in qualche settore, perché servono e serviranno ai giornali e ai Media persone preparate e specializzate. Se fossi un giovane, comincerei a studiare la lingua cinese e la storia della Cina, Paese che si sta affermando sempre più.
Maria Ianniciello