Ci sono dei “comandamenti” nella ‘Ndrangheta che vanno rispettati, Lea Garofalo e sua figlia Denise lo sanno molto bene. Nel film tv Lea, sin dai primi minuti, Marco Tullio Giordana punta l’occhio di bue proprio su questo aspetto, mostrandolo allo spettatore nella sua “normale” irruzione nella vita quotidiana. In realtà dopo i titoli di testa su nero, la prima immagine che vediamo è quella di Lea Garofalo (incarnata molto bene da Vanessa Scalera), in penombra, quasi onirica. In modo cronologico (siamo nei primi Anni ’80) veniamo introdotti alla vita di Lea, una ragazza come tante, nata in Calabria, desiderosa di vivere la propria adolescenza. Non si può scegliere dove nascere, ma si può provare a scegliere come e dove vivere. Di fronte ad un ambiente in cui si giura col sangue sull’immagine del santo, posti spesso in un cerchio come in un rito di iniziazione, anche la “fuga”, pure degli stessi famigliari, diventa difficile. Quando si è giurato non esistono più madri, padri, frati e sori. Questo “principio” tornerà come un boomerang sul fratello di Lea.
Come un’adolescente comune, Lea Garofalo si innamora, è lusingata dalla corte di Carlo (Alessio Praticò) e combatte anche con suo fratello (l’unico uomo di casa rimasto, a cui dà il volto Mauro Conte), optando per la convivenza. Lea ci fa percorrere il percorso di formazione che la donna compie, trasferendosi a Milano, dove prende pian piano consapevolezza di come da certi giri non si può facilmente uscire, anche se non si partecipa in prima persona. A darle la forza e il coraggio per cui è diventata celebre è proprio la figlia Denise (ottima prova interpretativa di Linda Caridi), associati, certo, a un carattere che vuole rivendicare il suo essere Lea Garofalo, una donna che non appartiene a nessuno, né al compagno, né a suo fratello. Non è semplice credere nella giustizia; Lea Garofalo lo ha fatto decidendo di rivolgersi alle forze dell’ordine, mossa dal desiderio di non far avere più paura alla sua piccola. Questa donna, però, non avendo mai impastato le mani in certi cattivi affari, poteva essere “usata” come testimone. A un tratto, questa sua posizione non è bastata più, le è stato tolto il programma di protezione nonostante l’assassinio del fratello e le continue minacce. Chiunque di noi, davanti a questo, si sarebbe sentito sprovvisto e spaesato, non più tutelato.
Il film tv riesce a comunicarci questa emozione; al contempo, però, sappiamo che difficilmente potremo capire fino in fondo cosa voglia dire quel calvario. Lea e sua figlia hanno vagato di città in città quando erano sotto il programma di protezione, con un’identità falsa e senza più passaporto o carta d’identità. Poi, dovendo far da sole, si sono divise tra Petilia Policastro (dalla nonna, interpretata da Matilde Piana) e Milano. Lea amava molto la città meneghina, ma è qui che ha trovato la morte, quasi in un acme drammatico da tragedia greca. Con profondo rispetto verso queste vite vere, ci permettiamo di fare questo parallelismo per i sentimenti e i valori di cui la Garofalo è portatrice e che ha tentato di trasmettere alla figlia. Purtroppo proprio come accadeva nella dimensione tragica, anche qui il corpo della donna è stato deteriorato, ma è per quel corpo che la figlia, ormai maggiorenne, si batte supportata dall’Associazione Libera (fondata da Luigi Ciotti). Lo vuole a tutti i costi ritrovare, è l’unico modo per condannare i colpevoli anche se tra questi ci sono suo padre e il fidanzato (Andrea Lucente). Un altro punto in comune con la tragedia sta nella forza propulsiva della componente femminile: sono le donne che possono interrompere certi cordoni dall’interno, pagando anche col caro prezzo della vita come in questo caso. Il coraggio di queste due donne fa riaffiorare alla mente la storia di Rita Mancuso raccontata da Marco Amenta ne “La siciliana ribelle” (2009), ovviamente sempre con i dovuti distinguo.
Giordana ha dichiarato come «un film non possa sostituirsi all’opera che fa il cittadino» e noi non possiamo che condividere questo pensiero. Va riconosciuto il valore civile di Lea, un documento audiovisivo che vuole farsi testimonianza e che ancora una volta si inserisce coerentemente nel percorso filmico di questo regista che non ha paura di impastare le mani anche nella storia recente. Bisogna farci i conti con i nostri anni, restituire anche solo degli input a quelle generazioni che non c’erano o che stavano magari nascendo e “Romanzo di una strage” (su Piazza Fontana, del 2012), “La meglio gioventù” (2003) e “I cento passi” (2000) sono esemplificativi in tal senso. Il regista di “Pasolini, un delitto italiano” (1995) ha raccontato che la donna aveva fatto vedere alla figlia il film su Peppino Impastato dicendole che avrebbe fatto la stessa fine. Lea fa vedere e vivere i passi che questa donna percorre prima che le venga spezzata la vita “solo” per aver detto no. C’è un filo rosso che lega, in particolare, “I cento passi” a Lea, anche Impastato disse, a suo modo, no e quel delitto passò in secondo piano perché tutti si focalizzarono sul ritrovamento di Aldo Moro. Tra i due, ci duole dirlo, il primo fa scattare un’empatia emotiva superiore. Ci permettiamo di fare questa considerazione consci che certamente ci sono delle restrizioni dovute ai tempi tecnici, a cui un regista è anche tenuto e con tutta la stima verso Giordana. Sicuramente si tratta di storie diverse e non mettiamo assolutamente in dubbio le capacità attoriali del cast di Lea, ma, durante e post visione, si ha come la sensazione che il girato potesse essere molto più lungo e che si sia stati costretti a tagliare di tanto per esigenze televisive.
A nostro parere soprattutto la seconda parte di Lea riesce ad avere un impatto meno trattenuto e più dirompente sulla platea di turno. Merito va anche all’idea di girare delle sequenze replicando le riprese delle videocamere di videosorveglianza, un escamotage che fa sentire sulla pelle l’idea delle due donne spiate; mentre, quando vengono usate per le scene in tribunale, sembra che si voglia creare un doppio occhio di bue per moltiplicare la prospettiva sui criminali e non perderli di vista pur essendo dietro le sbarre. Poi certo, ci sono delle licenze poetiche, come la scelta di riassumere i tre gradi di giudizio in unico processo, sempre per esigenze di durata. Magari dato che Lea era già nato come prodotto per la tv sarebbe stato positivo dividerlo in almeno due puntate così da scandagliare ulteriormente e poi, purtroppo, a inficiare la visione interrompendo il flusso emotivo, ci sono sempre le tante interruzioni pubblicitarie. Va detto che la mano di Marco Tullio Giordana si vede, a partire dalla scelta e direzione degli interpreti. Nel complesso non si può non rendere merito a questo impegno civile e artistico posto in campo con Lea, alla volontà di fare memoria attiva e di far provare, anche con qualche pugno nello stomaco, cosa voglia dire sentirsi confiscare la vita, la libertà, la dignità. La palla adesso è a noi.